Il brano che segue è il decimo racconto di Altri tempi, secondo l'edizione 2010


Le meravigliose ragazze di Praga


Comodamente sdraiato sul largo divano di Alutex, Martino si sentiva vagamente felice.

Aprendo un vecchio libro gli era capitata in mano una cartolina di mille anni prima, una cartolina che aveva spedito a se stesso nel 2010 da Praga e dove stava scritto:

Vuoi vedere Praga d’oro?

Io l’ho vista.

Per non dimenticare.

Martino

E i ricordi si accavallavano rapidi e lieti ai confini della mente, pronti a ridisporsi, a lasciarsi sfogliare e scegliere.

Quanto tempo era passato? Erano quasi sessant’anni.

Ora le cartoline non si usavano più, erano una curiosità che i suoi nipoti si passavano di mano in mano distrattamente, stupendosi della povera barbarie in cui si viveva agli inizi del secolo. Le cartoline non potevano più servire a tenere il segno degli ololibri e i saluti si mandavano apparendo di persona e non con i vecchi cellulari con cui si telefonava alla mamma e che erano tutti stati ritirati ancora negli anni ’30, pezzi da museo a parte, e dissolti.

Con tutti quei chip sottopelle i ragazzi erano diventati una specie di elettrodomestici volanti. Ti apparivano in casa ogni tanto, al momento del compleanno o a Natale, a stupirti con le ultime novità e a lasciarti un po’ triste per non poterli toccare. D’altra parte avevano vite frenetiche al confronto delle quali la tua di sessant’anni fa era una placida prateria.

Quando Martino raccontava che a quel tempo si andava a scuola, i suoi nipoti ridevano. E se gli diceva che si doveva salire su autobus stipati e odorosi in fredde mattine d’inverno, quasi si commuovevano all’idea di tanta sofferenza. E quando gli raccontava che per imparare una lingua straniera esistevano libri e corsi, quasi rabbrividivano di incredulità e si mettevano a parlare per prova le lingue più assurde come il Burjato-mongolo o l’Udmurt.

Martino continuava a ripetere: “ma pensa”, “ma guarda”, e loro ridevano divertiti.

A Martino le novità tecnologiche piacevano, ma sentiva che ormai non era più in grado di stargli al passo.

Per convincerlo ad installarsi la PanTV suo figlio aveva dovuto regalargliela, e il primo chip sottopelle aveva accettato di metterlo solo a cinquant’anni e solo per il controllo dei dati corporei dopo che aveva avuto la prima ischemia grave (e che adesso le ischemie erano cosette da niente…).

Da allora ne aveva messi altri, ma solo quelli obbligatori e un paio di livello B.

Quella cartolina era proprio una bella sorpresa. E chi si ricordava più di averla infilata in quel libro? Dovevano essere passati almeno trent’anni, cioè il tempo dopo il quale era stato proibito di stampare e si era permesso ad ogni individuo di conservare cinque libri cartacei al massimo, quei libri che aveva messo nel vano Memory e che gli era venuta voglia di sfogliare adesso, chissà perché.

Ripensando a Praga gli venne la tentazione di rivederne le strade, risentirne gli odori. Ora, con la PanTV, era possibile. Un optional offriva anche la possibilità di ricevere a casa entro trenta minuti un buffet di specialità praghesi su un menù di centosedici voci.

Eh sì, due passi sul Ponte Carlo, quattro passi su per la Piazza Venceslao, poi giù in una vecchia birreria, di quelle ricostruite come erano nel 2010, e mangiarsi, circondati dalla rumorosa, fumosa atmosfera del tempo, zuppa e spiedo e bere un paio di birre e un bicchierino di Becherovka.

Era possibile, era facile. Bastava poco.

Ma invece Martino si accomodò meglio sul divano, mise le braccia dietro la nuca, chiuse gli occhi e cominciò a pensare.

Nel 2010 ci si spostava con mezzi ingombranti e inquinanti che si chiamavano autobus. Si facevano viaggi infiniti di ore rischiando la vita su lame d’asfalto chiamate autostrade. E c’erano un mucchio di disagi, primo fra tutti quello di dovere andare in bagno in luoghi pubblici (e chi lo avrebbe immaginato, allora, che avrebbero inventato il Filtro BarH che concentrava in una comoda scatoletta le scorie e rimetteva in circolo l’acqua?).

Proprio con un autobus, proprio con una successione di soste nelle aree di sosta, proprio con un infinito viaggio di ore era andato, quell’anno, in gita scolastica a Praga.

Lui non lo sapeva neanche dov’era, Praga. E cosa poteva importargli? Gli importava che si spendeva poco, che con un euro si beveva una birra (si usavano ancora i soldi, allora, e addirittura, a Praga, e non si ricordava perché, due tipi di moneta diversa: la corona e l’euro). Anche della birra, in fondo, non gli importava granché. Non era uno che beveva molto, lui. Ma per la compagnia, avrebbe bevuto un po’, e tanto meglio se costava poco.

I professori gli avevano detto dove sarebbero andati, cosa avrebbero visitato. Tutte cose che aveva dimenticato prima ancora di finire di sentirle. E che sarà mai, pensava, la vita? Monumenti e musei, scrittori e pittori, chiese e ponti? La vita sarà divertirsi, al limite sballare, invadere temporaneamente i mondi equivoci di certi compagni di classe più scaltri, più estremi. E c’erano le ragazze.

Anche se quelle, con quegli occhi sprezzanti, quel camminare dritte e superbe buttando fuori seni magici, quell’accavallare gambe fruscianti fumando altere e indifferenti, quelle non erano cosa per lui.

Troppo timido, si ricordava Martino sorridendo fra sé, troppo convinto di non bastare per meritare l’amore di cui aveva bisogno.

Quelle ragazze, quell’arrivo imprevisto nella sua scuola dopo quattro anni di istituto maschile, erano fuori portata. Si erano incrociati ogni giorno negli ampi corridoi che portavano ai laboratori, avevano visto insieme ricreazioni fugaci fra una cicca e un caffè, ma mai si erano parlati.

Lui sapeva benissimo di essere invisibile a loro. Già guardarle era un problema.

Quelle ragazze, del mondo sapevano già tutto, si muovevano nello spazio come astronavi possenti, ridevano e gesticolavano riempiendo l’aria di sé, dei loro profumi, dei lembi appetitosi di pelle che scivolavano fra i bottoni e le cinture, i polsini e gli scolli. Sembrava che avessero dieci anni più di lui. O meglio, che lui ne avesse dieci in meno. Insomma, un bambino di fronte a una donna.

A quell’epoca, nel 2010, trovare un equilibrio era difficile. Non c’erano già più, da decenni, i cerimoniali standard del corteggiamento con invio di fiori e lettere, palpiti di cuore e promesse davanti a complici tramonti. Nel 2010 si andava col vento che c’era. A non essere timidi, le coppie si formavano dalla mattina alla sera, e dalla sera alla mattina, spesso, si disfacevano. Questo, però, a non essere timidi. Essendo timidi, si passavano le giornate a fantasticare, non sulla più bella, ma su una poco più in là della portata, fuori mano quanto bastava per essere irraggiungibile, ma vicina quanto bastava per potere sperare in un miracolo.

Adesso, nel 2068, tutto filava liscio. Da quando la Comunità aveva istituito i corsi obbligatori di Educazione Sociale e i Campus di Propedeutica Sessuale, essere timidi o intraprendenti non aveva alcuna importanza. Il percorso formativo prevedeva tutti i necessari supporti basati sullo screening genetico. Fino al 2050 si era imparato a relazionarsi correttamente, secondo le Codifiche della Comunità, nei Campus. Adesso si interveniva direttamente con i chip sottopelle che bilanciavano gli squilibri emozionali. Tutto filava liscio senza insicurezze e paure.

Altro che passare infinite sere a immaginare il momento in cui avresti baciato per la prima volta una ragazza o in cui per la prima volta l’avresti accompagnata per mano sul lungofiume. E altro che i pericoli delle malattie e delle gravidanze indesiderate. Adesso i chip ormonali regolavano tutto e i bambini si sceglievano con una percentuale di varianza rispetto alla richiesta di non più dello 0,89%.

Non c’era pericolo di prendersi alcuna malattia, perché le malattie infettive o trasmissibili erano segnalate da un rilevatore collegato al Centro Prevenzione che provvedeva al ricovero obbligatorio e alla cura prima che si diffondessero contagi.

Era anche impossibile ubriacarsi, adesso, perché l’Alcolchip rilevava la quantità di alcol prevista dalle Tabelle Comunitarie Ufficiali a seconda dell’età e della stagione e inibiva automaticamente la capacità del corpo di assumere alcol, deviandolo nel dispersore. Lo stesso valeva per droghe e farmaci in eccesso.

Era tutto molto più facile, adesso. Non dovevi neanche stare a pensarci a quello che facevi, come da quando avevano introdotto la GAI (Guida Automatica Interattiva) sui veicoli individuali e le Common Lanes per il movimento a grandi distanze.

Allora, invece, nel 2010, si aveva una percentuale di giovani morti sulle strade che era una cosa impressionante. Era la più elevata causa di morte fra i ragazzi. Adesso è il suicidio, perché ci sono dei pazzi che si strappano il chip di stabilizzazione e perdono la testa.

Se ci fossero stati, nel 2010, i Campus propedeutici, pensava Martino, non avrei sofferto tutte le pene che ho sofferto. Avrei avuto la mia prima ragazza anch’io, come tutti, a quattordici anni e tre mesi; la seconda, come tutti, a sedici anni e due mesi; e la terza, l’ultima prevista dal Campus, a diciassette anni e undici mesi. E poi avrei proseguito con il Social Program, lo Screening di Orientamento, il Chiping…

E invece, pensava, quante ne ho passate.

Quando sono andato a Praga (e avevo già diciotto anni, pensate) non è che non conoscessi le donne.

Anche se ai ragazzi di oggi sembra impossibile, allora ci si frequentava abitualmente fra ragazzi e ragazze anche senza i chip sottopelle.

A ripensarci, pensava, mi chiedo come facevamo. Doveva essere un caos infinito, un ininterrotto rischio.

Si ricordava i frammentari discorsi che certe ragazze facevano confidandosi con i professori, cose del tipo “ero assieme a un ragazzo, ma l’ho lasciato perché era sempre stanco, sono andata con un altro, ma penso ancora a lui, ma adesso lui ha un’altra, però mi scrive che tornerebbe con me, ma io intanto parlo con un amico, e…”.

E gli sembrava quasi impossibile di essere qui, a settantasette anni, e non essere morto quando ne aveva venti.

Se penso, pensava, a quanto bevevamo, a come guidavamo i motorini, a quello che fumavamo, al sesso non protetto, alle discoteche senza vie di fuga, alle macchine progettate per fare anche più del triplo del limite di velocità consentito (adesso è impossibile perché la velocità è regolata in automatico), mi sembra davvero impossibile.

Eppure Martino, il cui pensiero razionale divagava a dare ragione ai moderni metodi educativi di cui aveva sentito tante volte parlare alla PanTV, non riusciva a togliersi dalla mente il ricordo di quei giorni di Praga. Immaginarli, per un ragazzo di oggi, pensava, doveva essere come per lui immaginare un torneo medievale dal quale si poteva legittimamente uscire gravemente feriti o morti.

Ripensare con nostalgia a quel mondo trasgressivo gli sembrava qualcosa che confinava pericolosamente con il male.

C’erano voluti quarant’anni alla Comunità per mettere definitivamente sotto controllo tutti i pericoli insiti nella libertà non controllata. La libertà, il gran male del XX secolo, aveva inquinato alle radici la Salute, il gran bene del XXI.

Il controllo sul pensiero, per fortuna, ancora non era stato introdotto, anche se qualche gruppo politico lo aveva fortemente proposto. Forse fra qualche anno non avrebbe più potuto ripensare a quel mondo antico: qualche chip glielo avrebbe impedito e avrebbe sicuramente vissuto più sereno.

Ma intanto, finché si poteva, perché non concedersi il lusso inquietante della memoria?

La prima sera era stato un locale fumoso di cui aveva pochi ricordi. Era stanco per il viaggio, aveva sonno, aveva bevuto una birra.

La seconda sera era stata una birreria fumosa di cui aveva pochi ricordi. Era avvilito per la vicinanza insuperabile delle ragazze, aveva bevuto poco.

Ma la terza sera la situazione gli era completamente sfuggita di mano. Era entrato in un vortice che sarebbe finito solo dopo molti mesi in una devastante disperazione.

Aveva cominciato come tutti, con un cocktail. Costava poco, a Praga, bere. Lui a bere non era abituato. Al terzo cocktail cominciò a sentire un demone felice che lo scuoteva. Nella nebbia fumosa del locale seminterrato una meravigliosa ragazza magra se lo trascinò a ballare una cosa sudamericana. Lui, che mai aveva ballato prima, stava quasi fermo muovendo le gambe qua e là (l’eccitazione non poteva insegnargli i passi), ma lei gli si muoveva davanti come per tirarselo dentro, risucchiandolo in un guscio di lacci e capelli. Chissà perché gli vennero in mente Ulisse e le Sirene. Anche lui legato al palo del suo impaccio, e lei, la Sirena, che lo chiamava.

Poi gli amici lo strapparono all’incanto e lo trascinarono di sopra, al bar. E fu il primo giro di tequila. Le ragazze ridevano. Lui diceva qualcosa e le ragazze ridevano. Questo dunque è il grande sogno dell’uomo: far ridere le donne. Ridevano con gli occhi lucidi di fumo e allegria.

Martino sentiva un potere immenso ingolfargli il cuore. Vedeva la vita rovesciare a piena mani un tale esubero di bellezza che pareva impossibile avere potuto sopravvivere fino ad ora.

Travolto, stordito, Martino beveva la sua seconda tequila. Una ragazza riccia se lo coccolava sprimacciandogli i capelli, parlandogli in bocca in un soave mix di fumo, alcol, sudore e borotalco, e l’odore della vita gli faceva intuire che di questo si poteva morire, che si poteva farsi ammazzare per non mollare la presa su quel profumo, per non staccarsi da quella fornace che erano il viso rosso di lei, le sue spalle nude, il disegno della maglietta intorno al seno.

Ricordava, Martino, comodamente sdraiato sul divano rosso di Alutex, le mani intrecciate dietro la nuca, che la serata si era spenta in un fumo liquido. Era annegato in un’onda di capelli e cotone, aveva sentito carne morbida sulle guance. Il resto glielo avevano raccontato. Per fortuna in albergo aveva poi vomitato quanto bastava per sentirsi pronto all’ultima serata, all’ultima occasione per riassaggiare la vita.

Il giorno se ne andò nella solita sterile attesa della sera. Tutto sembrava regredito a ventiquattro ore prima come se nulla fosse accaduto, come se il genere umano non potesse sopportare la realtà. Si convinceva, di ora in ora, che si era ingannato. Quelle ragazze che ora sgambettavano qua e là, avanti o indietro la fila indolente dei visitatori della Città Vecchia, non gli mandavano cenni di intesa, non se lo riprendevano sotto l’ala protettrice, non gli arruffavano i capelli con le dita che davano brividi. Le Sirene erano passate come un sogno, l’attimo non era stato colto.

Ma dopo l’indolente pomeriggio tornò la sera e tornarono le fantasie. La magica Praga faceva volare l’assenzio nell’aria. Martino ricordava che per la prima volta nella vita, mentre si vestiva, aveva badato che la felpa stesse in tinta con i jeans. Si era fatto persino la barba, a costo di farsi prendere in giro dai compagni di stanza. Era riuscito persino a tornare in albergo, con una scusa, per lavarsi i denti dopo cena.

Era certo che non sarebbe successo niente, che una magia come quella della sera precedente non poteva riavverarsi. Ma nulla è più difficile per l’uomo che non desiderare di riprovare un piacere conosciuto. L’invincibile speranza reggeva di fronte alla inevitabile realtà.

Si tornò, per caso o per destino, nello stesso locale.

Tanto era stata innocente la sera precedente, quanto questa iniziava nella complessità.

Martino, che ora si poneva degli obiettivi, seppure vaghi, cercava di sedersi vicino a una delle ragazze che lo avevano stregato, ma nel gioco della conquista del territorio la sua timidezza lo teneva sempre indietro. Ad ogni spostamento scivolava sempre più lontano dalle Sirene. Quando riusciva ad avvicinarsi, la ragazza si alzava per andare a ordinare da bere e lo lasciava sul posto senza scuse, senza promesse.

L’innocenza accade una sola volta nella vita, e non basta mai.

Glielo avrebbero spiegato solo tanti anni dopo cos’era quella cosa che aveva sentito per la prima volta. Glielo avrebbe spiegato proprio uno scrittore praghese che l’uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazione, come un attore che entra in scena senza avere mai provato; che la nostra vita è uno schizzo di nulla, un abbozzo senza quadro.

Non si può vivere due volte lo stesso momento.

Come la sera precedente le ragazze ondeggiavano portando cocktail colorati, il volume delle voci aumentava di mezz’ora in mezz’ora, capannelli complici si strutturavano spostando tavolini e sedie, gruppi erranti prendevano possesso dei divanetti e le ragazze ridevano e giocavano al gioco sapiente del negarsi.

Ma stasera lo facevano con altri, stasera non erano per lui le impagabili attenzioni, le maliziose attrazioni, i canti seducenti delle Sirene.

Non riusciva a entrare nel vortice, risospinto alla superficie dalla forza centrifuga della vita, troppo rapida, troppo mutevole.

Martino rimase, lo ricordava chiaramente, a lungo accomodato su una poltroncina, petalo della quieta corolla degli amici non intraprendenti.

Ripensandoci adesso, dopo sessant’anni, si stupiva di non avere immaginato, allora, che anche gli altri dovessero vivere qualcosa di molto simile a quello che viveva lui. Che anche gli altri, inebetiti e spenti, erano Ulisse legati all’albero maestro a gridare silenziosi e impotenti alle Sirene. Che in quel locale tossico, navigato da un’allegria impropria, decine di cuori si maceravano infelici, decine di menti elaboravano piani impossibili per vincere la deriva ed entrare nel vortice della vita.

C’erano sofferenze, a quel tempo, spaventose.

Ricordava che, afflitto, non sopportando l’immobilità che rubava il tempo alle possibilità, si era deciso a risalire al piano terra a prendere da bere, rassegnato a una squallida, triste sbronza. Non doveva essere brutto, in fondo, bestemmiare con gli amici contro le donne labbra di miele, consolarsi bevendo del peso del cuore.

Era tequila quella che aveva bevuto la sera prima? Tequila fosse.

La ordinò.

Guardò dentro al bicchierino come si guarda nel pozzo della nostra morte. Ci buttò dentro tutta la vita, la rabbia, la voglia di piangere, l’orgoglio, la pena. E bevve di un fiato.

Tossì diventando rosso e scuotendo la testa. Non si sentiva meglio, ma adesso sapeva che poteva allontanarsi dal dolore. Bastava un altro bicchiere.

E mentre cercava di attirare con lo sguardo il barista, sentì un fiato dolce dietro l’orecchio e una voce che gli chiedeva se questa sera non si ballasse più. E lui rispose con gli occhi, perché con la voce non gli sarebbe riuscito tanto il cuore gli era balzato in gola. E la meravigliosa Sirena lo prese per mano e se lo portò giù a farsi travolgere dalla follia, a risentire il meraviglioso vento della morte e della vita, a esplodere di meraviglia e gratitudine.

Ballando impavido nel fumo che sembrava lasciato da una battaglia Martino diede un’occhiata rapida all’orologio e fu scosso dalla gioia: erano solo le undici.

Il vortice delle ragazze prese a trascinarlo verso il fondo del mare. Adesso si trovava così vicino ai loro volti che poteva distinguere le fessure delle labbra, i nei, le ciglia curve come virgole, il brillare delle iridi scure, gli orecchini ciondolanti.

Avrebbe voluto dire, urlare come si sentiva, ma seppe di non possedere le parole. Poteva solo cercare cose divertenti da raccontare, fingersi a suo agio nell’azzardare a toccare la punta dei capelli dell’una, l’unghia di un dito dell’altra. Poteva solo, di tanto in tanto, urlare e ridere e sentire le ragazze che ridevano e che dicevano “è fuori!”, e che lo attiravano ancora più giù, nel vortice della follia.

E furono bicchierini di assenzio e mix di frutta, sigarette per respirare un istante, poi di nuovo il canto delle Sirene.

Liberato dai lacci che lo stringevano all’albero, Ulisse si gettò nelle onde che erano i capelli, i corpi, le ciglia delle meravigliose ragazze di Praga.

Questo tempo non deve finire mai, pensava.

E questa, pensava, è solo la porta del mare. Cosa ci sarà dopo? Quali altre magie, quali altri incantesimi nascondono questi strati di stoffa leggera? Dove potrebbe portarmi una sola di queste meravigliose Sirene, se solo lo volesse? Dove sarà il confine del mare?

Poi ancora una volta l’ebbrezza lo prese. Sentiva la testa girare, la lingua impastarsi.

Non seppe sottrarsi all’ultimo crudele bicchiere.

La strega verde gli bruciò l’anima e d’improvviso la danza fatata delle Sirene gli divenne indifferente.

Stordito, si lasciò sedere sul divanetto. Farfugliava parole senza senso e le ragazze continuavano a ridere.

I profumi si mutarono in odori. Non gli riusciva più di sopportare il fumo delle sigarette, l’acido della birra rovesciata per terra. Sentì che aveva bisogno di aria, di freddo.

Una ragazza bionda gli si avvicinò e gli chiese se si sentiva male.

Lui provò a spiegarle come si sentiva. Che non si sentiva male, che stava benissimo, ma che gli si era rotto qualcosa. Voleva dirle che aveva visto il fondo del mare e che era così lontano, così lontano. Voleva dirle che lui non ce l’avrebbe fatta mai ad arrivare fin là, che lui non era Ulisse, che voleva ora sottrarsi a quello stordimento, ritrovare lucidità per spiegarle, tenendole la mano, cosa aveva capito quella sera, quali visioni aveva avuto, come la vita gli era apparsa trasparente e terribile e l’amore un grande viaggio senza approdo.

Ma sentiva solo il mare sciacquargli dentro e la ragazza dire “è andato”, e allontanarsi. Intorno si ricostituiva la corolla semplice degli amici.

Intanto lui, nei tristi, ultimi passi dell’intossicazione alcolica, capiva lucidamente, senza appello, che le Sirene avevano solo giocato. Senza cattiveria, senza intenzioni, come si gioca con un bambino. Avevano cantato perché cantare ai viandanti era la loro natura. Avevano cantato per lui come per chiunque altro, perché attrarre marinai nel grembo del loro desiderio di sedurre era la loro natura.

Non era lui che volevano. Volevano la sua attenzione, la sua dedizione, la sua schiavitù. E capì che era preso, prigioniero delle alghe dei loro capelli, delle squame dei loro corpetti.

Capì che il dono che la vita gli aveva offerto per due sere di seguito non si sarebbe ripetuto, che il sogno si era dissolto e che non avrebbe potuto rassegnarsi a tale perdita. Capì che la visione che aveva intuito lo condannava a un viaggio indesiderato su mari ostili, alla ricerca del miracolo che per due volte gli era stato concesso e che mai più poteva sperare di riavere.

Sentiva ingolfarsi il pianto alla base della gola, ma riuscì a resistere.

Tornarono in albergo.

Dormì una notte breve.

E fu un viaggio di ritorno triste, sprofondato nel seggiolino dell’autobus, con lo stomaco in subbuglio, la testa pulsante, i pensieri neri.

Le ragazze che dormivano a bocca aperta, le palpebre gonfie, accartocciate come vagabondi, smaniose di sigarette, irritabili per il sonno, erano le stesse Sirene della sera prima?

Martino sapeva che c’erano ancora quattro mesi di scuola per andare a navigare gli scogli dove sarebbero andate a cantare, eppure era certo, adesso, che non sarebbero bastati. Lo specchio, la mattina, gli aveva restituito la propria spietata maschera che non era quella con cui le ragazze coprivano i muri dell’aula.

E quando finirono anche quei quattro lunghi, sterili mesi di scuola, Martino piombò nella tragedia della solitudine.

Quanta sofferenza, pensava ora Martino, comodamente sdraiato sul suo divano rosso di Alutex, a pochi anni dal compierne ottanta. Come trovare, oggi, il coraggio di esporre un ragazzo a una tale follia?

Erano tempi irresponsabili, distratti, feroci.

Eppure quelle due sere, adesso, col cuore sereno, erano ricordi che mai avrebbe permesso gli toccassero. Avessero deciso, quelli del Ministero della Salute, di imporre per legge il chip della rimozione dei ricordi, si sarebbe barricato in casa, se lo sarebbe strappato con la forza, se a forza glielo avessero messo.

Anni di doloroso viaggio nell’ignoto, dopo quelle magiche sere, erano valsi come sconto di una felicità impossibile ed enorme, di una visione inimmaginabile, di una promessa sospesa che le Sirene gli avevano gratuitamente donato.

Per quanto nella sua vita avesse poi avuto soddisfazioni professionali, avesse amato, avesse sperimentato il successo, il piacere, la stima, nulla fu mai come quelle sere.

Per alcuni minuti, in quelle sere, aveva provato la breve gioia perfetta, la sensazione di avere in mano la chiave che apriva l’immenso forziere della vita.

E capiva ora, rigirandosi la cartolina fra le mani, quella cartolina che aveva comprato a Kutna Hora e che aveva indirizzato a se stesso quella sera poco prima di perdere i sensi, che in quel breve momento, senza saperlo, qualcuno che lui non conosceva ma che doveva vivere dentro di lui, gli aveva insegnato la strada della vita. La bellezza che aveva visto, la gioia che aveva provato gli avevano insegnato che oltre i confini del mondo, oltre i limiti della saggezza, c’è l’infinito calore della vita e che a quel calore valeva la pena, a costo di perderla, dedicare l’esistenza.

La vita, dunque, era sempre la stessa. Oggi i chip sottopelle limitavano l’invadenza degli ormoni, i corsi propedeutici guidavano alla gestione delle prime impacciate relazioni, gli Alcolchip equilibravano la disinibizione.

Ma i ragazzi impazzivano come allora. I ragazzi si suicidavano come allora. I ragazzi sognavano come allora.

E i ricordi sopravvivevano ed epoche e mondi rinascevano su un comodo divano rosso di Alutex.

E la vita appariva ancora così com’è, stupefacente e terribile, un grande mistero di materia e spirito.

E limpide nel ricordo, dopo sessanta lunghi anni, ancora vivevano, splendide, immutate, invincibili, le guance d’oro delle meravigliose ragazze di Praga.