Il testo che segue è il Capitolo XIX di Annali di Zaruby, Libro I - La Foresta degli Angeli
I due forestieri vennero accompagnati a visitare il modesto convento. Sarebbe stata questione di breve momento se l’hospitalarius Willembordo, come suo solito, non avesse impiegato dieci volte il tempo necessario per illustrare ogni più piccolo particolare delle sale, dai porta candele di vetro colorato agli incensieri, alla campana, agli scranni del coro, alle dispense, alle luminose e intime cellette individuali. Naturalmente, tenne per ultima la biblioteca, vero orgoglio di Zaruby.
Grandi finestre si aprivano sulla boscosa vallata a est e scaffali di volumi si allineavano lungo le pareti. Piccoli bracieri a ruote, ora spenti, tenevano d’inverno al caldo i copisti; che, per la verità, erano solo due, Clemens Finn e Giovanni Teutonico, che stavano crescendo altrettanti giovani, uno dei quali ero io. Lo scriptorium non era grande perché Zaruby non era uno di quei conventi in cui i manoscritti si copiano professionalmente. Solo Clemens copiava volumi per committenze esterne, mentre Giovanni, la cui mano era meno allenata e la cui grafia risentiva di un certo nervosismo, scriveva copie più spartane per la comunità, senza capilettera e senza miniature. L’importante, diceva Tommaso, era avere libri: che fossero belli o brutti, poca importanza aveva, purché non si faticasse a leggerli.
Clemens, che all’Isola dell’Occhio aveva illuminato meravigliosi volumi con leoni e serpenti, sospirava, ma comprendeva: Tommaso si arricchiva della lettera del testo; lui, delle lettere. Ognuno, a Zaruby, cercava Dio a modo suo e ognuno lo trovava nei modi e nelle forme più disparate e imprevedibili. E Dio era ovunque e si donava largamente.
Come era possibile, mi chiederai, questo miracolo? Come avveniva che in quell’insignificante angolo di terra sovrabbondasse quella presenza divina che quasi in ogni altro luogo è concessa con avarizia?
Un’aria diversa si respirava lassù. Anche tu, caro Tebaldo, hai frequentato i chiostri, mangiato negli ampi refettori e dormito nelle cellette monastiche e, pur non essendo un monaco, ti è capitato di cantare i salmi, respirare l’incenso, partecipare a sacri riti secolari. E cosa ti è rimasto? Quale impressione? Quali sensi vibrano al ricordo di tali momenti? Non lo so, ma so cosa rimembravano a me, quando giunsi a Zaruby, i pochi anni infantili trascorsi con i monaci: freddo, sonno, nostalgia, talvolta squallore. Sì, ero piccolo, e non avevo precoci vocazioni per la tonsura. Non nego che, a pensarci, quegli anni erano anche stati belli, e non dimenticherò mai certi giorni in cui i prati si coprivano di fiori e si usciva a camminare e correre in compagnia dei buoni monaci. Ma la prima impressione, il primo brivido quando pensavo a un chiostro era di freddo umido. Sulla parete del refettorio del monastero dove ero entrato a sette anni c’era scritto Humilitas. Noi ragazzini lo storpiavamo in Humiditas: c’era muffa, odore di vecchio, freddo. Se lo scopo dei vecchi monaci era farci desiderare un paradiso rendendoci indesiderabile la vita sulla terra, bene, ci riuscivano. Ma per fortuna i miei genitori, essendomi morti nel frattempo due fratelli, mi reclamarono a casa e finì lì, a dieci anni, la mia monacazione.
Quando, alcuni giorni dopo la battaglia, salii al convento di Zaruby, preparato a sentire nelle narici l’odore di stantio e sulla pelle l’umido dei muri grondanti, mi sorprese un’ignota sensazione di asciutto e di nuovo. Avrei saputo, più avanti, che il convento era stato riadattato a fortezza dai carpentieri di Mikulas solo pochi mesi prima, cosa che spiegava il buono stato di conservazione delle strutture. Ma era il clima quello che mi colpiva, come se la naturale temperatura e umidità dell’aria fossero moderate dalla presenza dei monaci che bilanciavano, scaldando e raffreddando l’aria con le loro opere, parole e persino pensieri, caldo e freddo, umido e secco. In qualunque stagione, a Zaruby, si stava bene.
Sì, si stava bene: c’era qualcosa di Dio ovunque e, per brevi anni, la pace e la concordia regnarono. Ma poiché non era lecito che il paradiso di Dio potesse ritagliarsi uno spazio in terra, i rappresentanti del Dio di quaggiù restituirono i suoi sudditi al Dio di lassù, e Zaruby scomparve.
Comunque, mio diletto sire Tebaldo, non era di questo che ti volevo narrare. Abbiamo lasciato i due forestieri in visita con Dom Willembordo e ci siamo un po’ perduti in questi ricordi d’infanzia. Il fatto è che le giornate, qui, sono in inverno molto brevi e, per quanto cerchi di rubare tempo all’oscurità consumando le candele che mi riesce di procurarmi, sono costretto a coricarmi molto presto. Ormai sono quasi vecchio e dormo poco, così penso, e penso troppo. Prego e penso nel buio della mia stanzina e tornano i ricordi e ritrovo gli amici con cui, come uno sciocco, dialogo ancora nella mente. Mi sovvengono mille cose che mi ripropongo di scrivere con ordine quando verrà mattina, ma poi, quando prendo il calamo, i ricordi si accavallano, le belle frasi tornite che mi suonavano in testa poche ore prima si contorcono e mi sfuggono e sono costretto a scriverle e cancellarle più volte sulla tavoletta di cera prima di metterle in inchiostro sulla bella carta siciliana che mi è rimasta. Non ho un ragazzo che mi aiuti, perché non lo potrei pagare e perché metterei qualcuno in sospetto se si sapesse che scrivo quello che scrivo. Devo fare da solo, ma finché la salute mi sostiene, ringraziando Dio, sono almeno libero da costrizioni e obblighi e considero il mio scrivere un dovere in faccia a Dio e agli uomini, qualunque cosa possa infine venire da questo reduce dimenticato.
Ma ti dicevo del convento.
Fra tutte le stanze che lo costituivano (non immaginarti che fossero molte; Zaruby, come credo di averti già detto, era molto piccolo), ebbene, sai quale ricordo con maggiore piacere? La cucina.
La cucina?
La cucina. Strano, vero? La preferenza di un monaco va, di solito, alla propria celletta se è un contemplativo, alla biblioteca se è uno studioso, al refettorio se è un mangione, all’orto se è un manuale. Ma è ben raro che un monaco ami la cucina, per quanto sia noto quanto ai monaci piaccia mangiare e bere. Nei grandi conventi, a cucinare provvedono i conversi in quanto i monaci non ne hanno il tempo, presi dalla preghiera e dal lavoro ordinario e a Zaruby le cose andavano esattamente nello stesso modo: nessuno dei monaci cucinava, se non uno; ma questo unico faceva la differenza con gli altri conventi.
Padre Pellegrino aveva alle spalle una non disprezzabile carriera di scienziato e filosofo. Fra le arti del quadrivio prediligeva l’astronomia e nelle notti nere senza luna scrutava per ore il cielo alla ricerca dei segni del tempo e dei tempi. Ancora molto giovane, in virtù delle sue non comuni conoscenze astrologiche era stato consigliere dei signor marchese Bonifacio del Monferrato, che tu ricorderai perché subentrò a tuo padre alla guida dell’infelice pellegrinaggio oltremare indetto da papa Innocenzo. Pellegrino (e da qui forse deriva il suo nome, dall’avere molto viaggiato; o forse, l’avere molto viaggiato era profetizzato nel suo nome, chissà) seguì Bonifacio a Parigi per l’organizzazione della spedizione, poi a Venezia, a Corfù, in Macedonia, a Tessalonica, ad Atene, Tebe e Corinto, poi in Bulgaria, dove Bonifacio morì. Tornato in Italia, Pellegrino si mise a servizio del figlio di Bonifacio, Guglielmo, che accompagnò al Concilio Laterano. Subito dopo, decise di seguire Tommaso a Zaruby.
Ebbene, in tutti questi pellegrinaggi Pellegrino scoprì (me lo raccontò egli stesso) che esiste un denominatore comune a tutte le genti che, meglio di qualunque altro, ne mette in luce il carattere, la storia, la natura. Questo comune denominatore è il cibo.
Tutti devono mangiare e, in questi nostri tempi in cui è possibile trovare a Palermo uno stoccafisso ibernese e in Ibernia vino greco, si potrebbero mangiare le cose migliori, scelte tra le tante che i mercati offrono con abbondanza. Ma Pellegrino notò una cosa: che dovunque andasse, il suo signore Bonifacio pretendeva di essere nutrito con i cibi a cui era abituato. Mai Bonifacio si avventurò ad assaggiare qualcuna delle specialità locali che gli indigeni divoravano con gran gusto, e si faceva mandare da casa persino i tartufi e il poco formaggio che mangiava. E se in Macedonia beveva il vino greco era perché era solito berne anche alla corte del Monferrato, sebbene si lamentasse che quel vino che veniva dalle cantine di Tessalonica e Atene aveva un sapore diverso da quello che sempre aveva bevuto. Che quindi, probabilmente, davvero greco non era.
Pellegrino, invece, amava ingaglioffarsi con i popolani e assaggiava tutto, comprese le salse piccanti come il fuoco e gli intrugli di latte inacidito e verdure. Da buon astronomo, si studiava di capire se i cibi avessero una relazione con i meridiani e con il diverso modo che le stagioni hanno di manifestarsi nei diversi luoghi. E poiché, come a tutti, gli piaceva mangiare, si faceva nel frattempo spiegare dai cuochi il modo in cui si cucinavano vegetali, frutti e animali, essendosi accorto che più ci si avvicina al luogo di origine di un prodotto commestibile, più aumentano e si fanno complessi i modi di prepararlo. Inoltre, Pellegrino si avvide che il cibo è utile non solo, o forse non tanto, per nutrire il ventre, ma soprattutto per equilibrare l’umore e disporre gli animi e le anime nel modo migliore. Contestualmente al responso delle stelle che presentava su richiesta ai suoi signori, elencava i cibi adatti all’umidità e al calore del giorno e all’umidità e al calore attuale di Bonifacio, o di Guglielmo che fosse.
Curioso di ogni cosa riguardasse ciò che entra nel corpo dell’uomo e a quali sintomi si accompagni quando ne esce, Pellegrino venne infine a conoscere le virtù medicamentose delle erbe (cosa sulla quale non raramente aveva da discutere con Tessalo) e i benefici dei grassi e le misure e i tagli dei vini e si portò a Zaruby tutta questa scienza insieme agli attrezzi di cucina che aveva raccolto qua e là. Così, mi raccontarono, con il suo arrivo a Zaruby arrivò anche quella che pareva essere un’intera mensa mobile militare sferragliante di mestoli, zuppiere, coltellacci e marmitte, buratti e zangole.
Pellegrino fu il mio padre spirituale oltre che maestro di cucina, e da lui appresi che per consolare lo spirito nulla vale come il cibo condiviso, soprattutto se è ben cucinato e accompagnato da una giusta misura di vino opportuno. Da lui ho appreso a cucinare, a ricavare molto dal poco quando si era nella necessità e poco dal molto quando si poteva eccedere, a deviare con le spezie sapori sgradevoli e a rendere gustosi i cibi di magro; ad unire, insomma, il lecito con ciò che consola, la sazietà con la salute.
E nella mia solitudine, devo dire, la porrata che mi cucino la sera accompagnandola col pane e il vino di Modra, ben speziata quando me lo posso permettere, non mi è di minore consolazione della recita dei Salmi, Dio mi perdoni.
Ma i porri, diceva Cosma l’Armonioso sorridendo della mia debolezza per agli e cipolle, sono creature di Dio: nella loro semplicità collaborano al disegno divino in cui tutto è buono e bello, come opportunamente riporta il libro della Genesi. Ne era ghiotto anche Tommaso, e Pellegrino gliene mandava una caldaietta il sabato, che Tommaso metteva la sera su un fuochetto di sterpi e mangiava di gran gusto, riconoscente.
Nella porrata, ti avviso, dovrai metterci zenzero e mandorle, e solo alla fine altre spezie, secondo il tuo gusto.