Il racconto Una rosa, sesto della raccolta, plagia Le mie prigioni di Silvio Pellico, capp. 86-89 e Addizioni a Le mie prigioni di Pietro Maroncelli
Una rosa
23 giugno 2012
A Silvio Pellico, Saluzzo
Caro amico,
fra le curiose cose che ci sono accadute in questo tempo, quest’ultima che ti narro non è delle più strane, ma, avendomi essa ricondotta alla memoria una situazione consimile che mi toccò in sorte di sopportare nel tempo della nostra prima vita, te ne relaziono come a persona, come oggi si usa dire, informata sui fatti (su quelli, intendo, che accaddero allora) e, soprattutto, come alcun’altra sinceramente preoccupata della mia salute, sia essa del corpo o dell’anima.
Ti rassicuro, in primo luogo, che sto bene. M’è accaduto un fatto banale le cui conseguenze sono state, gratia dei, nè gravi nè all’eccesso fastidiose, se non che mi svegliarono, appunto, ricordi che, per il loro peso, non m’è concesso d’assopire.
Accaddemi dunque che, passeggiando e scherzando con la signorina Licia, una studentessa milanese incuriosita, non che da me, dalla mia straordinaria età non adeguatamente congiunta a decrepitezza, misi in fallo il piede e, malamente scivolato in un dirupetto (di o più o meno un braccio profondo), sentii venir meno il ginocchio e produrmisi un dolore sì istantaneo e acuto che fecemi gridare, ma che ben presto riassorbissi, subentrante un fastidio tenace e lento. La signorina mi soccorse, prima preoccupata assai, poi sorridendo con me del ridicolo inciampo mentre aspettavamo i soccorsi, che giunsero da lì a poco. Mi sollevarono con mille premure e mi portarono, con uno di questi mostruosi carretti semoventi che nomano automobili, allo spitale, dove attesi, seduto in un ampio e accogliente atrio, che giungesse il mio turno per essere visitato. L’attesa di quattr’ore, ch’ad altri sembrò insopportabilmente lunga, parve a me miracolosamente breve, stante il ricordo di quanto diversamente andassero le cose al tempo dell’ottocento.
L’età, l’esperienza, la religione m’ànno assuefatto a non giudicar l’operato e il pensiero altrui, ma ti dirò, Silvio caro, quanto m’è difficile l’esercizio della virtù della comprensione rispetto a questa curiosa forma di ingratitudine che consiste nel veder ne’ fatti l’unico particolare sgradevole quando se n’ànno bensì molti di opportuni e nient’affatto ovvii. Aveste patito, era sospinto a dir a que’ signori, quel che patimmo Silvio ed io e l’Oroboni e il Villa e gl’altri infelici! Quest’ore d’attesa, sia pur essa dolorosa, le contereste come minuti, e la certezza d’esser quanto prima visitati e curati da medici che parlano la vostra lingua, un privilegio bastevole a passar in quarto, quinto, vieppiù ultimo grado il modesto disagio dell’attesa (vero è che un’anziana signora, certo non più anziana di me, ebbe a patir molto prima che si giungesse al suo momento; la cosa mi parve iniqua, che non si desse precedenza all’età e al sesso, e i’ avrei ben volentieri ceduto ad ella il mio diritto, s’avessi potuto: ma non me lo si concedette).
Giunto che fu il mio turno, mi si diagnosticò, dopo accurate analisi e l’esposizione a strumenti moderni che non mi procurarono alcun dolore, la lacerazione d’un legamento del ginocchio sinistro, danno che puossi rimediare solo con intervento di chirurgia.
Il pensiero d’esser operato, e proprio alla gamba sinistra, non mi sorrideva certo; anzi, ricomparvero all’istante incubi e dolori che il tempo avea assopito e diradato. Mi rivedea seduto su d’un lettino, con te che mi reggevi alle spalle e due cerusici con volto triste e compìto e con lancette e segacci alla mano. Vistomi sbiancare, mi si rassicurò che trattavasi di operazione la più comune, che non avrei sentito alcun male e che le odierne tecniche d’addormentamento de’ nervi erano avanzate e sicure (si stupivano, anzi, ch’io potesse pensare che l’operazione sarebbe stata fatta me sveglio, e ne ridevano: sveglio sì, mi dissero, ma non la sua gamba: essa dormirà per tutto il tempo necessario alla bisogna. Mi presero, e come non capirli, per un ipocondriaco o un burlone, anche se furon sempre, forse non solo per rispetto della mia età, soverchiamente gentili).
Accettai dunque, ancora una volta, la volontà divina e firmai la bolla con la quale autorizzavo l’intervento. Da lì ad alcuni giorni, durante i quali, preso da altre urgenze, non mi sovvenne d’informarti, mi si fece portare in una comoda stanza a tre letti dove fui adagiato con tutte le grazie possibili in un d’essi e dove attesi, un po’ chiacchierando con i vicini, un po’ meditando, gli eventi successivi; la quale attesa non fu nè lunga nè noiosa.
Era la prima volta che mi trovavo in un moderno spitale, ed ebbi agio d’annotare quanto razionale e pratica fosse la disposizione degli oggetti e del mobilio e quanta distanza corresse fra il presente e il passato. Il letto mi veniva sollevato davanti o dietro secondo il mio bisogno o sia pure capriccio; una pulsantiera posta sopra la testa consentivami d’accendere il lume e di chiamare un infermiere; un comodo oggetto a forma d’anforetta etrusca, appeso su un bordo del letto e che potevo facilmente afferrare con la mano, permetteva di soddisfare i naturali bisogni piccoli con certo agio e discrezione, senza disturbare alcuno.
Non mi si portò nulla da bere o mangiare poiché ciò era proibito prima dell’operazione; ma io fame non avea, nè sete e non ne patii in alcun modo.
L’attesa, ti dicevo, fu breve. Un infermiere solenne e paffuto venne col rasoio a depilare il ginocchio e parte della gamba, e con pochi tocchi ebbe tosto finito. In questo tempo, te ne sarai avveduto, i barbieri non fanno più i chirurghi e, quel ch’è peggio, i chirurghi non fanno più i barbieri: sciolta l’arte dal possesso degl’attrezzi, le professioni ànno prese vie distinte e neppur parallele. Capita però, evidentemente, che la nobile professione del barbiere sia oggi svolta dagl’infermieri, i quali, peraltro, hanno spesso più competenza non solo in fatti di rasoio, ma bensì in scienza, di molti archiatri del nostro antico secolo. E questo, devo dire, è cosa che m’allieta assai, poiché prova che il nostro soffrire non fu vano ed ebbe epigoni che contribuirono al diffondersi dello studio, della libertà della scienza, del libero accesso al sapere.
Dopo la rasatura venni abbigliato per la sala operatoria con camicetto verde di carta e berretto frigio di consimile materia e tinta. Mi si mise su un lettino con ruote e si partì all’ignoto.
La sala operatoria era posta a un piano diverso di quello della stanza da letto, preceduta da minimi spazi definiti da separé entro uno dei quali fui inoltrato per un primo colloquio, ch’avrei dovuto avere, mi si disse, con l’anestesista. Che, difatti, immantinente giunse.
Trattavasi, con mio stupore, d’una bellissima giovane, d’età che a me parve meravigliosamente vicina all’infanzia. Ricordavami un’Elisa ch’ebbi allieva. Ella mi si rivolse con affabilità e dolcezza, mi chiese di ribadire il mio nome e di ripetere il consenso all’intervento, cosa ch’io feci con certa gaiezza, tanto m’aveano messo di buon umore il garbo della fanciulla e la constatazione che trovavami di fronte non una comune ragazza ch’avesse fatto qualche studio, ma un autentico dottore medico alla quale età e sesso non erano stati impedimento, o almeno non impedimento impossibile a superarsi, al praticare alla pari con virili anziani. Anche questo, pensavo, è frutto tardivo del nostro sacrificio; anche questo era compreso nel nostro sogno: che ciascuno potesse far di sè ciò che Dio avea disposto dovess’ei fare, non impedito dal censo, dal genere, dalla nascita, ma solo dalla propria carenza di volontà e di stolidezza. Quella giovane che s’apprestava ad avviare il mio piccolo intervento, per lei certamente comune, ma per me importante in quanto mio, in quanto (speriamo) unico, m’appariva come un gentile segno divino di complicità, come se l’operazione alla quale mi toccava di sottomettermi dovesse in qualche modo avere il senso di disvelarmi qualcosa che piacesse al buon Dio farmi conoscere.
Mi chiamavo, dissi, Pietro Maroncelli e acconsentivo, sì, all’intervento.
Mi spiegò che l’anestetico che m’avrebbe addormentato la gamba mi sarebbe stato introdotto, se capii bene, attraverso una vertebra spinale successivamente a una prima piccola iniezione d’anestetico locale. Mi stupì quasi fosse uno scrupolo superfluo ch’un anestetico dovesse esser preceduto da un altro anestetico, e mi rividi seduto su quell’antico lettino, con te accanto e un laccio intorno alla coscia mentre i chirurghi armeggiavano coi loro segacci. Certo, anche un piccolo dolore presente produce nel corpo più dolore di un dolore passato, ma mai la mente disperde in tutto il ricordo e, in quel momento, riprovai, come eculei del presente, le strazianti fitte che mi torturarono in quel lontano giugno del ’28. N’ebbi un piccolo sudore ch’allarmò la gentile dottoressa. “È tranquillo – mi chiese – si sente bene?”
La rassicurai che stavo benissimo e che trattavasi solo d’un brivido di freddo (faceva in effetti freddo in quelle stanze e, nel corso della mattina, sovente alcuni dei presenti se ne lamentarono).
La dottoressa mi lasciò, non dopo avermi ulteriormente rassicurato con parole gentili. Mi disse che, se ne avessi fatto richiesta, avrebbe potuto darmi un sedativo generale che m’intontisse leggermente, ma io risposi che già l’età m’imbambiva alla bisogna, e lo ricusai: già che s’anestetizzasse un anestetico parevami troppa grazia.
Subentrò all’anestesista un’altra donna che, dal linguaggio, mi parve altrettanto giovane, ma che dagl’occhi, unica parte del volto che potea vedere dietro una mascherina, si rivelava più matura. Avea meravigliose piccole rughe tutt’intorno il globo dell’occhio; di quelle rughe che si producono pel troppo ridere o pel troppo piangere: per l’avere, insomma, fortemente vissuto. Anch’essa, a paragone mio, era una giovane, e così, come giovinetta, la mia mente l’impresse.
Mi richiese di ribadire il mio nome e il punto della mia povera spoglia mortale nel quale dovea essere operato. Risposi adunque di chiamarmi Pietro Maroncelli e di dover essere operato al ginocchio sinistro (la gamba stessa, invero, già era stata marcata con un segno dall’infermiere barbiere).
“Maroncelli – mi chiese la giovine mentre annotava ogni cosa – non era un carbonaro?”
“Lo era – le risposi – (mi sfuggì quasi di dirle ‘lo fui’). Visse due secoli fa.”
“Ed ella – continuò – ne porta il nome. Perché i suoi genitori scelsero per lei proprio il nome di Pietro?”
Volentieri avrei risposto, ma poteva io raccontare a lei senz’esser preso per folle, la nostra strana vicenda? Come spiegarle, nel breve spazio dei minuti che ci separavano dall’operazione, come a te ed io furon restituiti per divino decreto gl’anni della nostra giovinezza che ci fu dato di vivere al carcere? Rinunciai, e le chiesi, piuttosto, come fosse ch’ella avesse ricordo di Pietro Maroncelli; una figura, in fondo, ben minore nella storia patria.
Mi rispose che Maroncelli e Pellico e Confalonieri e Santorre di Santarosa e il Di Breme e cent’altri erano parte integrante del programma scolastico di storia degl’anni in cui ella era bambina; che addirittura si raccoglievano le loro effigi in album d’immaginette, come fossero sacre (come quelle dei calciatori, mi spiegò, ma io non avea cognizione non bensì di chi fossero i calciatori, perché d’essi e di poc’altro favellano gl’astanti delle moderne mescite, ma delle figurette ad essi dedicate; me ne informai di lì ad alcuni giorni, per senile curiosità, presso un bambinetto e seppi che trattavasi, esattamente come m’era immaginato, di ritratti in guisa di santi che si acquistavano nelle rivendite di tabacchi, ascosi in bustine opache dalle quali non sapevi cosa avresti tratto, così come non sapevi quale immaginetta avresti ricevuto dalla mano riconoscente della mendicante cui un tempo elargivi la moneta conservata per fioretto).
La giovine mi spiegò che di lì a poch’anni dal concludersi dei suoi studi primari, nomi, immagini e vicende di tanti personaggi minori del nostro tempo, fra i quali tu ed io eravamo compresi, svaporarono da’ libri di scuola, occupandone una porzione sempre minore fin quasi a scomparirne. Destino non migliore aveano da alcuni anni, mi disse con quello ch’io volli percepire come un accenno di rimpianto, anche figure più celebri dell’unità della nostra Italia, le quali, non potendosi sottrarre al ricordo perché troppo note, sia pure al meno a causa della toponomastica, venivano ridimensionate dal giudizio storico, relativizzate, egoistizzate, infangate.
S’ella avesse avuto diec’anni di meno, mi disse, non avrebbe saputo chi Maroncelli fosse (infatti la precedente dottoressa sembrava non saperlo). Ma com’è bello, mi disse, com’è bello che lei si chiami Pietro Maroncelli.
E la cosa, lo dico a umiliazione della mia umiltà, mi fece enorme piacere.
Mi chiese poi s’avessi allergie (vergognandomi di non sapere cosa fosse un’allergia, risposi no), se prendessi abitualmente farmaci (no), se fumassi (no), s’avessi avuto malattie. E qui ebbi un attimo di incertezza perché, quale malattia m’era ignota? A parte il tumore al ginocchio, avea patito lo scorbuto, l’artrite, ogni forma di malattie intestinali dovute al cattivo cibo, e polmonari dovute alla cattiva aria e all’umidità del carcere, e via, che potrei elencarne mille.
Ella si fermò in attesa. Io mi risolsi a dirle, facendo riferimento al breve periodo ch’era intercorso fra il mio inatteso ritorno a questa terra e l’oggi, che di fatto avea solo un poco patito di dolori di gola pei quali ero stato curato con innocenti pasticche dolci e aromatiche (il male, mi dissero, era causato da inquinamento, una forma a me ignota di perturbazione artificiale della composizione dell’aria comune). Ella prese atto e prese nota. Mi disse, infine, che tutto era pronto e che si sarebbe proceduto di lì a poco.
Difatti non trascorsero che pochi minuti e, col mio lettino su ruote, fui portato alla sala operatoria dove tutti i presenti, ch’erano moltissimi, un intero satellizio, mi salutarono cordialmente chiedendomi se fossi pronto, se tutto andasse bene. Della qual cosa li rassicurai.
Mi tradussero quindi al tavolo operatorio, m’adagiarono sul fianco sinistro, m’aiutarono a dispormi in posizione rannicchiata e, da quel momento, mi tennero accuratamente informato di tutto ciò ch’avveniva o che sarebbe da lì a poi avvenuto.
La prima iniezione, quella che doveva rendermi insensibile alla seconda, fu un accenno di puntura di spillo e nulla più. Non n’ebbi fastidio maggiore che quello, insieme pungente e piacevole, che si pruova quando ci si stende su un pagliericcio; tanta fu la delicatezza di quella manina. La seconda iniezione, sebbene la giovane anestesista m’avvertisse ch’avrei sentito un fastidio, fu meno ancora invasiva e non n’ebbi percezione alcuna.
Si concludeva così la parte preparatoria, che sarebbe stata seguita di lì a un trenta minuti, il tempo necessario al farmaco per avere effetto, dall’operazione vera e propria per la quale subentrarono due dottori: l’uno, per quanto si poteva indovinare da ciò ch’emergeva dalla tenuta professionale che copriva tutto tranne gli occhi, più giovane; l’altro, dalla voce e dall’autorevolezza, ch’avrei detto più anziano; e lo era, certo.
Tutte le operazioni fino a quel momento, e così sarebbe stato per il prosieguo, erano accompagnate, in guisa di ciò ch’oggi suolsi chiamare sottofondo, da una musica che, leggera nel volume, dovea far parte del repertorio moderno al quale le mie orecchie ancora non sono avvezze e che percepii, come spesso mi capita nell’ascoltare questi nuovi suoni che sgorgano in ogni qual si voglia loco delle città, come un’acre mistura di melodia, voci sgraziate, incursioni di bande militari, con qualcosa, ossia pure molto, d’eroico e altrettanto di femmineo: un’androginia musicale che le mie orecchie e il mio cervello non sanno apprezzare, ma certo per carenza mia, non del musico, sebbene creda che neppure il Paisiello e il Bellini, tanto più di me sensibili, avrebbero apprezzato.
Mio caro Silvio, quante novità ci è stato dato di conoscere! Eppure, nella sua sostanza, il mondo appare sempre lo stesso. Medesimi i sentimenti, medesimi i sogni, le speranze, l’amicizia. E medesimi anche i limiti e i difetti dell’umanità, e medesimo il dovere di tutto comprendere, perdonare, accogliere. Sebbene di tali doveri si faccia oggi poca divulgazione (preferendogli, m’è parso, un gretto razionalismo o, peggio, un empirismo materialista e fatalistico) non con ciò ch’essi siano scomparsi. Li si ritrova, invece, in misura uguale al passato, comecché non più inculcati per doveri o eroismi cristiani, ma per naturalità umane.
Fummo sorpresi, ricordi, nei primi mesi del nostro passeggiare per le vie affollate e perigliose di questa era, di vedere lecitato quel libero convivere che tanto fu imputato alla nobile Giulia Beccaria, di sapere permessa l’opinione qual che fosse (fino all’insulto, che ci portò alle lacrime, del nostro tricolore, insulto che non fu punito; mentre a noi ben minore offesa a un illegittimo governo causò la condanna a morte). Ci stupimmo vieppiù del libero amore, dei libertini costumi, del fatto incredibile ch’offese tremende non portassero a duelli ma a miti denunce sempre riassorbite (e ci sembrò vedersi realizzato il tuo avviso che venire a duello debba stimarsi come buffonata d’uomini superbi e feroci), e convenimmo, dopo un tempo di avvilimento e impressione d’essere venuti a vivere in barbaria, che trattavasi, in fondo, incarnati in un tempo e in un mondo diversi, dell’evoluzione dei nostri convincimenti. E così, assuefatti che ci fummo (la nostra prodigiosa età ci consente accesso rapidissimo alla saggezza) ci parve giustizia, in questi tempi che non sono i nostri e che non sta a noi giudicare nè tentar di mutare, che si pretendesse di lecitar il matrimonio fra pari sessi e di consentir il matrimonio ai chierici. Un mondo strano, certo, è questo in cui ci è stato dato di riacquistar gl’anni perduti, non so se per premio o contrappasso. Un mondo imprevedibile, in cui la libertà, che ponemmo a guida maestra del nostro lottare e del nostro sacrificio, mostra la faccia a noi ignota dell’angoscia, così da spingere il libero a fuggir da essa. Eppure, forse non così diversi erano i tempi nostri. Quanti, caro amico, furono i nostri compagni? Quanti in una città grande e abitata come Milano presero parte attiva alla nostra lotta? Quanti di fronte alla potuta libertà, o almeno alla speranza di potere, con l’azione, avvicinarla, àn preferito il ripiegare sui moderati piaceri del giorno, sui minimi vantaggi dell’acquiescenza? Ma non sta a noi giudicare: quel che è stato è stato.
Dicevo (non vorrei perdermi in queste divagazioni, ma tante novità a un tempo mi disorientano), che tutta la questione operatoria fu risolta a sfondo di musica. Sfondo che mi sfuggì di lì a poco, perdendone interesse a fronte di un fenomeno che cominciava ad interessare la mia gamba. Infatti, a partir dalla sommità dell’arto, un greve senso di pesantezza cominciava a possedermi. In pochi minuti la gamba perdette ogni sensibilità ed ebbi finalmente coscienza ch’io non era più padrone della facoltà di imporle il benché menomo movimento o reazione. Fatto curioso, che mi risvegliò il ricordo del triste precedente: mantenevo l’impressione d’avere la gamba piegata ad angolo e il piede ben poggiato sulla tavola, quando, al contrario, la gamba giaceva distesa e il piede posava sul tallone. Alla mia richiesta del perché di tale sensazione (ero infatti pienamente lucido e presente a me stesso), il dottor giovane mi spiegò che trattavasi d’un inganno della mente, la quale fissa l’ultimo ricordo di vitalità del membro perduto per conservarlo immutato in sè. Ciò spiegava perchè, dopo l’amputazione allo Spielberg, continuassi a provare, come tu ben descrivesti, sensazioni dolorose ne’ nervi, quasicchè la parte tagliata vivesse ancora, e mi dolessero ancora il piede, la gamba e il ginocchio che più non avea.
La sensazione che provava questa volta non avea nulla di sgradevole se non che di curioso, come vedere la mia gamba sollevata davanti a me e sentirla, al contrario, incurvata e ferma sul tavolo. Certo, dovetti sforzarmi di non cedere al ricordo.
Mi si sollevò davanti agli occhi un telo verde affinchè non vedessi l’atto chirurgico d’incidere il mio ginocchio per aprir la cavità dalla quale sottrarre i tendini ch’avrebbero sostituito quello stracciato (se sapeste cosa vidi, pensai, quel giorno di giugno! Ma tacqui).
L’operazione aveva i caratteri della più comune ordinarietà. Medici e infermieri scherzavano fra loro e con me; chiedevanmi informazione su come mi fossi procurato il danno e mi canzonarono benignamente per il fatto ch’un vecchio come me se lo fosse procurato mentr’era in compagnia d’una bella giovinetta: e come stupirsi, mi dissero, che mi fossi distratto dal guardar dritto al mio naso e fossi rotolato nel fosso? Ne convenni, e risi anch’io con loro.
Terminato ch’ebbero d’aprirsi il varco, cosa di cui non ebbi la minima coscienza, essendo la parte totalmente inanime, mi chiesero se volessi assistere al seguito dell’operazione. Risposi che non mi sarei perso per alcuna ragione lo spettacolo di vedere, senza soffrire, una cosa che tanto da vicino mi riguardava. Scoprirono quindi una parte del velo che mi separava da’ due medici (angeli premurosi erano rimasti dalla mia parte a sincerarsi incessantemente della mia condizione) e girarono verso di me uno di quegli schermi su cui gli abitanti di questo tempo amano vedere muoversi e sentir parlare i loro simili. Ma, con mia sorpresa, non vidi il mio ginocchio sanguinante e pesto, come m’aspettavo, ma un enorme blocco di carne bianca ch’occupava integralmente lo spazio. Capii da me, in breve, che vedevo come attraverso un cannocchiale: il mio ginocchio, per semplificare le procedure, era osservato da’ miei chirurghi in dimensione tale da consentir loro di agire con massima sicurezza e precisione, in virtù dell’ingrandimento e della luminosità.
Mi si spiegò, con termini chiari, come si sarebbe proceduto: una fresa avrebbe rimosso i residui di legamento ch’ingombravano lo spazio e, ripulita la zona, un foro sarebbe stato aperto nella tibia e uno nel femore per inserirvi il legamento nuovo, composto da un intreccio di quelli che m’erano stati preventivamente sottratti, per poi fissarlo con viti e spilli riassorbibili (sarebbero cioè scomparsi entro un anno, il tempo sufficiente perché l’osso, inglobando il legamento, lo fissasse indelebilmente a sè).
La cavità era tenuta aperta, mi si disse, con acqua iniettata a pressione.
Il lavoro procedette rapido, sicuro, indolore.
“Ed ora – mi dissero – dobbiamo forare la tibia e il femore per farvi passare il legamento”. E così fecero, usando uno di quei trapanini che certi bizzarri artigiani utilizzano per costruire vascelli in legno in tutto simili agl’originali, non fosse che sono cento volte più piccoli. Lo stesso mio novello legamento, che mi fecero accuratamente osservare prima d’inserirlo a forza nel vano all’uopo apprestato, somigliava a una di quelle sartie in miniatura, tutto intrecciato e legato abilmente con gasse d’amante o altro nodo d’arte marinara.
L’operazione era conclusa. Riserrarono il telo per risparmiarmi l’impressionevole spettacolo della cucitura, così come m’era stato risparmiato quello dell’incisione (come scrivevi, caro Silvio, nel capo ottagesimosettimo del tuo capolavoro, “…il vecchio chirurgo tagliò, tutto intorno, la profondità d’un dito; poi tirò in su la pelle tagliata, e continuò il taglio sui muscoli scorticati. Il sangue fluiva a torrenti dalle arterie, ma queste vennero tosto legate con filo di seta. Per ultimo si segò l’osso”. Avessi, insomma, potuto raccontargli cosa avevo visto…). Ma non mi dispiacque di non vedere: non sono versato e aborrisco gl’eroismi gratuiti ed esibizionistici e preferii di gran lungi rilassarmi e chiacchierare con una delle giovinette che mi chiedeva ad ogni trascorrer di minuti se stessi bene.
Ricucito che fui, venni ricondotto alla stanza e rialloggiato nel mio comodo letto. Un sacchetto raccoglieva il sangue e l’acqua che cristianamente gettava la mia ferita; un sacchetto d’acqua, o quel che fosse, mi venne adiuvato ad un braccio per mezzo dell’ago che preventivamente m’era stato innestato. Non sentivo ancora la gamba, e mi preparavo serenamente ad affrontare gl’inevitabili dolori successivi all’esaurirsi dell’anestesia.
Fui lasciato a riposare, tranquillamente adagiato sul più comodo dei letti. Non provavo alcun dolore nè fastidio ed ero pienamente lucido, la qual cosa mi consentì di scambiare parole con i vicini di stanza, uno dei quali dovea esser operato alla spalla, l’altro al mio stesso ginocchio, ma per minori complicazioni. Ci vollero alcune ore perché riprendessi la percezione della gamba, che avvenne progressivamente e senza traumi. Cessato che fu quasi interamente l'effetto dell’anestetico, fui sorpreso dal constatare che provavo solo un leggero fastidio, un senso di grevezza e nulla più, sebbene avessi visto co’ miei occhi che le mie ossa erano state generosamente lavorate a fresa e bulino e la mia carne incisa. Credo che l’acqua che mi si trasfondeva nelle vene contenesse qualche sedazione e ch’essa fosse la causa del mio benessere.
Subentrò a tal punto un altro giovane portando un oggetto fatto di stecche e lacci, quale un bustino da signora adattato a una gamba. “Ecco che mi portano i ferri” pensai fra me e me, sorridendo della distanza che intercorreva fra le catene che ci furono così lungamente imposte e quell’oggetto all’apparenza quasi innocuo e dotato di cinghie apribili: non ribattute con chiodi, com’era de’ nostri vincoli.
Mi sollevarono la gamba (e qui provai, in vero, un certo dolore), la riappoggiarono sopra quella sorta di carapace e ve la serrarono. L’arnese dava impressione di grande razionalità e pratichevolezza. Lo si avesse avuto, pensavo, per alleggerire le sofferenze dei nostri soldati trasportati feriti in carrette e a dorso di mulo! Quanto vano dolore, quanto sacrificio erano intercorsi in quei secoli! Al pensiero di dovere io adesso, in tali condizioni, essere trasportato altrove sugli scossoni di un carretto, maneggiato da mani cameratesche ma grevi, sbrigative, riposto in uno spitale da campo, all’addiaccio, alla febbre… Che terribile pensiero!
I nostri, caro Silvio, erano tempi forse più eroici, certo più austeri, ma confesso che non avrei in quel momento fatto il cambio. La qual tale mia repentina riflessione, m’indusse a un’ulteriore constatazione. Fino a quel momento, da quando ero entrato nella clinica, quale che fosse la mia condizione sempre mi ero sentito rassicurato, tutelato, e ciò, come effetto inatteso che ora, notandolo, m’inquietava, avea prodotto ch’io mi sentiva indifferente, o per meglio dire restio, al pregare. Mi pareva, comprendimi, che in tale privilegiata condizione suonasse quale ingratitudine lo stesso rivolgermi al Cielo per averne vicinanza e conforto. I miei piccoli doloretti mi parevano indegni di meritare una preghiera; i piccoli disturbi di cui a breve ti relazionerò e che mi avrebbero tormentato qualche ora, li stimavo insufficienti a giustificare di disturbare l’Onnipotente. Realizzai, insomma, quanto debba essere difficile a chi non patisce, o patisce al di sotto della soglia di ciò che lui ritiene patimento, appellarsi a Dio; difficile d’una difficoltà dovuta non a ostacoli, bensì all’assenza d’essi. Ma nel contempo questa mia riflessione mi ribellava all’idea che fonte del credere e dello sperare dovesse per forza essere il dolore. E mi interrogava su tanta parte della nostra religione, così avvezza a metter l’accento sulle piaghe del Cristo, sulla flagellazione e la corona di spine, sull’ignominiosa crucifissione e su quanto spetti a noi, suoi umili discepoli, di completar nel corpo e nello spirto l’ammontare di dolori necessari a placar l’ira del Divin Padre. Ma Cristo, mi veniva di pensare, ebbe trentatrè anni di vita in questo mondo e, da quanto ne sappiamo, non travagliati più di quelli d’altri umani da angustie e malattie! La morte in croce fu atroce, è vero, ma breve. E non fu, ahimè, un’eccezione fra i modi del morire. Quanti suoi correligionari perirono in tal guisa? Quanti Pilato ne crucifisse alle porte, e quanti, in mille altri modi, ebbero a soffrire ben più del nostro Salvatore? Noi stessi, caro amico, e ciò non suoni a blasfemia, collezionammo un rosario di piaghe ben più nutrito di quelle del Cristo; forse meno salvifiche, poiché non era la nostra la condizione d’esser l’Unigenito; ma come puossi misurare il dolore di una creatura in base alla nobiltà della sua provenienza? Noi creature non soffrimmo meno dell’Uomo-Dio, e molti più di noi soffrirono, e non per giusta pena (sventura, non giustizia ci ha colpiti…).
Ma, in somma, non vorrei qui trattar di teologie: mi basti l’aver condiviso con te quel breve pensiero. Fatto si è, dunque, che non mi venne di pregare o impetrare soccorso in nessuno di quei momenti, tanto minore era, in quantità e durata, la sofferenza del presente quando paragonata a quella del passato. E anche il ringraziare il Cielo per il poco dolore, mi venne male e quasi sforzato: non spettava forse, tale ringraziamento, più agl’uomini, agl’uomini di scienza che tali rimedi avevano escogitato e agl’uomini e donne che intorno a me si affaticavano per alleggerire la mia condizione? Ma quanto contava il dito di Dio in tutto ciò? Dove esaurivasi l’arbitrio umano e dove subentrava l’intenzion divina? Ebbene, perdonami, non voglio procedere oltre su queste riflessioni. Ne favelleremo a breve, se ci sarà dato d’incontrarci. Ti racconterò solo, avviandomi a concludere, dell’unica occasione di sofferenza ch’ebbi di fatto a patire nel breve corso della mia degenza.
L’acqua che mi veniva instillata nelle vene doveva essere di qualche abbondanza perchè, sebbene nulla avessi bevuto dalla sera precedente, la vescica cominciò a gonfiarmisi in modo doloroso. Sentiva premere ad ogni punto del ventre, che ormai era durissimo, e provava un desiderio insostenibile d’urinare. Orbene, ciò m’era impossibile. Per effetto dell’anestesia qualche mio recettore o altro era impigrito e non attivava i necessari meccanismi atti all’escrezione. Per quanto cercassi, nelle più diverse e limitate posizioni che la gamba rigida mi concedeva, di liberarmi, il ventre mi si gonfiava e non c’era modo di svuotarlo.
Mi risolsi, adunque, a chiedere soccorso pigiando il bottone rosso posto sopra la mia testa, e subito una voce dall’esterno chiese di cosa avessi bisogno. Lo dissi, e immantinente un’infermiera accorse. Vistomi pallido e sudato mi chiese se ritenessi il caso di farmi inserire un catetere. Come funzioni un catetere te lo spiego, perché forse neppure tu, come me, ne ài finora sperimentato uno. Trattasi banalmente d’una cannuccia che viene infilata in senso inverso al naturale nel membro minzionatore e che produce, per un banale principio idrico, la fuoriuscita del liquido. La cosa, va da sè, non m’aggradava, ma non mi riusciva al momento d’immaginare dolori peggiori e irrimediabili di quelli che provava, nè vedea speranza d’urinare naturalmente. Dissi dunque all’infermiera, senza esitare, che procedesse pure, e mi feci forza, distogliendo il pensiero agli sguardi di commiserazione che mi rivolgea il mio vicino di letto, che del catetere, mi diceva, avea ricordi orrendi. Ella uscì e tosto rientrò seco portando un vassoio di cannule, siringhe, buste e sacchetti. Indossò due paia di guanti, aperse una busta da cui spremette una sostanza a mezzo fra il solido e il liquido (una gelatina, via) nella quale intrise una sezione generosa di cannula, prese il mio povero moncherino fra le dita e v’infilò con grande delicatezza e destrezza la cannula lubrificata che, a onta di quanto aveami paventato il pavido mio contubernale, mi diede solo un piccolo fastidio. Il benefizio che mi venne dal sentir fluire fuor da me l’eccesso che m’opprimea, non saprei dirlo con parole e forse neppure in musica. Nel mentre godevo la sensazione impagabile d’essere restituito al benessere, pensavo ancora una volta a quai tempi felici sian questi, almeno per quanto riguarda la salute del corpo.
Di problemi minzionatori avrei sofferto anche durante la successiva notte, perchè la mia vescica ancora rifiutavasi di svuotarsi naturalmente, ma mi si raccomandò di sforzarmi con ogni pazienza di urinare naturaliter. Di un secondo catetere, mi dissero, non c’è in genere necessità.
Per tutta la notte non dormii, impegnato nell’ardua battaglia per svuotarmi. Elaborai e appresi dall’esercizio le diverse modalità d’uso del pitale che nomavano pappagallo, disponendolo ora fuor dal letto, ora fra una gamba sporta e l’altra poggiata, ora in mezzo alle cosce, ben coerente al materasso. Infine, goccino dopo goccino, con la pancia che, dolendomi, nel contempo impedivami di pensare all’altra parte che dolea, occupando buona pezza della notte riempii il pitale al punto che la mia successiva preoccupazione fu che la sua pienezza m’impedisse di svuotare la mia. Non mi risolvea, per timore di dar disturbo ai miei camerati e agl’infermieri stessi, di premere il bottone rosso per dimandar alla guardia notturna che mi svuotasse il vaso, ma al contempo temea, ad ogni successiva aggiunta di liquido renale, di giungere a riempir troppo il vaso, finchè questi esondasse e bagnasse il letto. Il mattino non giungea, la mia faticosa e risibile impresa continuava. Prima dell’alba, inattesi giunsero due angeli in forma d’infermieri di dispari sesso a misurarci la febbre e chiesi e ottenni che, per sovrappiù, mi si svuotasse il vaso. Potevo ora, rafforzato, affrontare quel che restava della notte. Cosicchè, di lì a poco, presi sonno.
La mattina successiva mi medicarono le ferite, mi sfilarono la cannula che drenava il mio non salvifico sangue e acqua, m’infilzarono una calza bianca, molto stretta e molto pesante che mi ricordava un capo di abbigliamento di quel genere scherzosamente trasgressivo ch’ho sentito nominare burlesque e che con qualche turbamento ò visto proporre in un’immagine ch’annunciava uno spettacolo, se così è lecito definirsi; mi reinstallarono nel mio carapace, mi chiesero se sapessi usare le grucce e me le fecero provare (di un materiale leggerissimo e resistente, allungabili a piacere, perfettamente atte alla bisogna, certo non prestigiose nè inattese come fu la gamba artificiale che ricevetti da Vienna, fabbricata dal meccanico dell’Università e con ratifica dell’Imperatore).
E infine mi dimisero, con farmaci al seguito, indicazioni sul decorso della convalescenza, istruzioni sulla gestione del carapace, delle medicazioni e delle grucce.
Venne a prendermi una vettura pubblica sulla quale, con qualche fatica, riuscii ad allungare il mio arto immobile e mi si accompagnò alla locanda che mi ospita, dove la mia gentile padrona m’accolse con grande affabilità e compassione.
Ora sono qui, nel mio comodo letto, che ti scrivo per mezzo d’uno uno di questi comodissimi calami che non sporcano d’inchiostro nè s’esauriscono nel corso d’una riga. Posso, con qualche dolore e molta attenzione, alzarmi da solo e, grazie a una borsa che la mia buona locandiera m’ha procurato e che metto al collo, trasportare dalla libreria al covile i libri che mi fanno compagnia. Dormo molto, quando la gamba non mi duole, e molto penso. Penso al tempo della nostra captività, penso ai nostri severi e umani carcerieri, penso ai miei chirurghi Schlosser e Linhardt, penso a tante coincidenze fra quel luttuoso 18 giugno 1828, giorno anniversario dell’infausta battaglia di Waterloo, e questo giugno d’oggi nel quale ò rivissuto, nella mente più che nel corpo, quei giorni infelici.
E mi sovviene che, risparmiato in gran parte dal dolore, circondato da comprensione e affetto, necessitato in nulla di farmi coraggio, tant’era la pochezza dell’intervento, mi sia parso superfluo, quasi di cattivo gusto, il lasciare a’ miei chirurghi un piccolo ricordo, un segno di riconoscenza per avermi liberato da un nemico, pur essendo nella condizione, nè difficile nè gravosa, di poterlo fare.
La gravità delle cose ci costringe a soffermarci a riflettere, ci guida a soppesare anche i piccoli gesti, le piccole attenzioni. Non c’era una rosa nella sterile sala operatoria di questo mio ultimo intervento, ma pure ci fosse stata mi avrebbe messo in imbarazzo farne dono a chi non avea cognizione di meritarlo. Questi operarono perfettamente, sicuri della loro scienza, un arto come morto, inesposti allo strazio d’un intero corpo sanguinante; gl’altri, che pure non furono perfetti, si assunsero la responsabilità di martoriare e dissanguare un uomo vivo, di arrischiarlo alla morte perchè vivesse. E lo fecero per colui ch’era stato condannato come nemico della loro patria, e lo fecero con zelanza e arditezza. E piansero per il piccolo dono d’una rosa.
Non so, mio caro Silvio, quale morale trarre da questo picciolo avvenimento. Se sia dunque necessario esporsi alla sofferenza, all’esilio, alla prigione per apprendere ad amare i nemici, o sia piuttosto necessario saper vedere in ogni piccola cosa l’esplicitarsi d’un piano che non ci è dato conoscere, neppure in questa seconda vita che ci capita d’avere avuto in dono od in affido.
T’abbraccio, dunque, e ti rassicuro che quanto prima farò in modo di venirti a trovare, ora che viaggiare è così rapido da non richiedere pianificazioni e accordi, cosicchè invece che vedersi più spesso, si rischia di non incontrarsi mai. E così, se non ci faremo attenzione, anche a noi accadrà, via via che ci assuefacciamo a questo tempo, che ci allontaniamo l’uno dall’altro, immemori.
Che ciò non accada, almeno a noi; che questo tempo affamato e distratto non ci muti nell’animo e non vanifichi in noi stessi il frutto del nostro antico penare.
Con immutato affetto e riconoscenza, il tuo fraterno amico
Pietro