Il brano che segue è il Capitolo 7 di Reuben


Cinque anni fa non avrei avuto dubbi. Ero assetato di azione e in cerca di opportunità. Non possedevo quasi niente e non avevo relazioni stabili, niente che mi legasse a un luogo, a un interesse, nessuna paura di cambiare. Allora nessuno mi chiamò, non c'era bisogno di me. Ora che rimarrei nella mia quiete come un vecchio stanco e addolorato sono costretto a una scelta improvvisa cui non so risolvermi, essendo divenuto nel frattempo non solo meno sicuro di me, ma anche meno sicuro di tutto ciò che ci circonda, di ogni giustizia, di ogni idea. Non trovo soluzioni, mi ci vuole ancora tempo.

Reuben, dunque, era cambiato. Al termine di quell'estate era diverso, assente, scontroso e ormai frequentava quasi esclusivamente Cinzia, che andava a trovare a casa ogni quindici giorni evitando per quanto possibile di incontrare Marco, me e gli altri e non preoccupandosi più di Francesca. C'era ancora, tra noi, ma era come assente. Ci volle quel litigio sulla gita a Firenze per rivederlo ancora vivace, ma la sua sconfitta la vedo ora come un segno chiaro che Reuben non era più lui, che poteva accettare le sconfitte perché appartenevano già a un altro mondo, al passato. Il Reuben di pochi mesi prima non avrebbe ceduto, quel Reuben combattivo e irriducibile che avevo conosciuto.

Ero stupito di lui e questo mi spinse ad analizzarlo più a fondo. Non ero uno dei suoi amici prediletti, quindi lo conoscevo abbastanza poco, ma gli somigliavo certamente più di Marco. È per questo che, forse, ci incontravamo così poco.

Studiavo, dunque, i suoi atteggiamenti esteriori, i suoi modi di fare clowneschi che lo nascondevano dietro una delle sue tante maschere. Lo vedevo rinunciare allo scontro, ascoltare i dibattiti senza intervenire più, fare i capricci come un bambino quando le cose non andavano come voleva, poi mettersi a ridere e andarsene. Non lo si capiva più. Ci faceva diventare insofferenti.

Intanto cambiavamo anche noi. Io, un po’ più vecchio di Reuben e dei suoi amici, cominciavo a vivere la disgregazione delle idee e dell'amicizia e a vedere in loro maturarsi una crisi definitiva che era la fine dei diciassette anni, la fine di un mondo e l'ingresso in un inferno chiamato civiltà. Quando quei ragazzi che avevo conosciuto entrarono nel mondo degli adulti, simbolicamente compiendo diciotto anni, anche il loro modo di essere cominciò a diventare adulto e di lì a un anno non erano più ragazzi ed erano in corsa. Non si discuteva più, ormai. Non aveva più senso. Il senso era diventato il lavoro, l'università, la vita reale, dura, agra.

E Reuben divenne Reuben perché non volle diventare grande, non volle rinunciare a restare quello che era sul serio per diventare quello che avrebbe dovuto essere. E quando le sue idee entrarono in contrasto con quelle di tutti i suoi amici, capii che Reuben non era proprio quello che pensavo. Reuben non era la giovinezza, ma quello che noi desideriamo che la giovinezza sia, quel bagaglio di emozioni e sentimenti che l'idea di gioventù ispira alle nostre menti. Reuben era ed è quell'insieme di immagini, di sensazioni, di ricordi offuscati, di sogni, di fantasie, di desideri, di idee, di fascino, di nostalgia, di struggente, invincibile nostalgia di quello che da giovani avremmo voluto essere e non siamo stati, di quello che il nostro passato non è stato e che vogliamo riconquistare inventandocelo, amplificando, smuovendo la polvere caduta su coppe di rose e ricostruendolo.

Reuben è la proiezione della giovinezza, l'immagine immutabile che richiama dalla nostra memoria quel coraggio, quei dolci sentimenti, quelle azioni memorabili delle quali ci illudiamo la nostra giovinezza fosse piena. E quello che avevamo messo in un cassetto ora si agita davanti a noi. Quel Reuben che abbiamo ucciso lentamente crescendo, quel Reuben che ci rendeva unici e liberi, sinceri e veri, cammina ancora sulle strade di un mondo che abbiamo perduto e non sappiamo ritrovare.

Reuben aveva vissuto un paio d'anni di forte idealismo e di ottimismo, si era impegnato in politica, nei centri culturali, aveva fiducia nelle persone che gli erano accanto, si divertiva e viveva intensamente e non seppe sopportare che quel mondo si sgretolasse, che gli amici cambiassero volto, che la vita diventasse ovvia, comune, immutabile.

Reuben rifiutava di muoversi di lì, mentre tutto si muoveva, e io trovavo questo molto sciocco, io, che avevo passato la giovinezza alla ricerca di un posto sicuro e ora l'avevo, un posto nel mondo degli adulti, un posto definitivo, finale, e questo essendo ancora giovane, io che mi ero costruito con lo studio e l'impegno una posizione invidiabile, io trovavo assurdo che uno come lui rifiutasse l'opportunità di entrare dalla porta principale nel mondo del rispetto e dell'importanza. Mi rendevo conto che aveva doti in abbondanza per farsi strada, avesse solo rinunciato a quella sua aria di superiorità e alle sue critiche feroci, avesse solo avuto un po’ più di umiltà e di buon senso, un po’ più di voglia di emergere. Lo potevo aiutare, non ci voleva granché. Era intelligente, elastico, parlava bene, aveva grinta. Ma non c'era modo di convincerlo di mettere da parte la sua fiducia nell'istinto e di affidarsi a qualcosa di più solido. Era così strano per me accorgermi che somigliava più a un indiano affetto da sciamanismo che a un abitante dell'Europa del ventesimo secolo.

Trovavo impossibili quelle sue convinzioni, come andare a trovare Cinzia, ed era un bel pezzo di strada, senza telefonarle prima. Diceva che il telefono rovina le sorprese e che comunque non aveva nessun problema a sapere se Cinzia c'era o no. A quel che ricordo, non viaggiò mai a vuoto, e quello che mi lasciava ancora più sconcertato era che, quando arrivava da lei, Cinzia diceva "ti aspettavo". E non era un modo di dire.

Tutto questo era molto animalesco, molto selvaggio, molto fuori dalla realtà, molto semplice e al tempo stesso incomprensibile. Reuben mi affascinava anche per quel suo modo di filtrare la realtà attraverso i sogni e per la sua capacità di essere istintivo, pur essendo un razionale. Era un modo di essere istintivo molto razionale, se così ci si potesse esprimere. La sua inusuale capacità di afferrare l'evolversi degli avvenimenti e anticiparli, era soprattutto frutto delle sue doti di introspezione e di comprensione unite a una straordinaria capacità di evitare coinvolgimenti soggettivi nel ragionamento. Il suo cervello, insomma, sembrava lavorare per proprio conto, senza la sua anima, ed elaborava informazioni pure che avevano qualcosa di inumano. Era istintivo perché distaccato e sensibile. Il suo mondo non conosceva realtà e fantasia, ma un inscindibile legame di esse. Nulla è reale quanto la fantasia, nulla è leggero, inafferrabile come la realtà. Non ci sono cesure fra realtà e finzione, non ci sono cose slegate e cose legate, non ci sono visioni e realtà, non ci sono finzioni.

E guardo il mio mondo e mi accorgo che non c'è il cielo, non ci sono uccelli, non ci sono mostri marini e quanto si muove nell'acqua, non ci sono uomini né déi, non ci sono occhi, non ci sono monete, non ci sono fantasmi non uomini buffi non tigri, non il bisonte, non io, non ci sono più io, e non c'è Reuben non c'è Reuben non c'è più nulla. Più nulla intorno a me. Tutto è dentro.

Vivisezionando il cadavere di Reuben.

Sto vivisezionando un cadavere per creare un mondo parallelo e sfuggire a me stesso. Cerco Reuben fuori, nel passato, nel futuro. Tutto è dentro. Scivolo nel fantasy, rubo la spada alla realtà. Tutto è dentro.

Scivolo a sud, raccolgo le cose nel mio buco fangoso e mi accingo a emigrare come un buon soldato con ordine di trasferimento. Viene mattina e sto cedendo. Non voglio andare.

Comincerò a raccogliere il mio tempo sparso qua e là negli angoli. Comincerò a guardare fuori con nostalgia a questa terra deserta e triste, cosparsa dei singhiozzi dei feriti. Troverò il modo di mutare Ismaele in Isacco. Spero di trovare tutte le borse che mi servono per portare la mia roba con me. Spero di trovarle.

Spero di trovare da mangiare.

Spero di guadare il fiume.

Spero di non perdere il treno.

E di ricordare la strada.

Spero di avere il tempo.

Spero che non ci sia fretta.

Spero che la luce non se ne vada.

Spero di trovare un po’ di pazienza.

Spero di trovare i monti.

Sono stanco come un soldato sconfitto.

Sono amareggiato come un guerriero vinto.

Il mio orgoglio mi duole, ma sono stanco. Sono molto stanco.

So che sono molto triste.

Dov'è il coraggio di Marco?

Dov'è il volto sereno di Cinzia?

Dov'è la dolcezza di Francesca?

Dov'è Reuben?

Dove sono io?

È molto che non li vedo. Erano molti, una volta, e il loro sorriso era il sorriso della terra. Dove sono, ora, i seguaci di Reuben, dove sono coloro che avevano il mondo nelle mani, dove sono i fieri guerrieri che stringevano la terra nelle mani, dove sono gli irriducibili guerrieri del nuovo mondo con le loro spade affilate, le frecce e gli archi?

Dov'è finito il loro mondo, dove le loro idee e i loro modi e i loro sogni e le mie ultime speranze?

Divento vecchio e guardo indietro e ripenso ai giorni lieti, o che io ripenso tali. Quando si è vecchi il pensiero che declina ci fa tornare indietro perché davanti non c'è più quasi nulla. E io guardo indietro, ma non trovo i miei giorni migliori.

Torno indietro di un mese e non li trovo.

Torno indietro di sei mesi e non li trovo.

Torno indietro di un anno e non li trovo.

Torno indietro di due anni e non li trovo.

Torno indietro di tre anni e non li trovo.

Trono indietro di quattro anni e non li trovo.

Torno indietro di cinque anni e non li trovo.

Torno indietro di sei anni e ancora non li trovo.

E allora capisco che la giovinezza è un soffio, che la gioia di Reuben è stata un soffio, e dico che davvero tutto è stato inutile, vana fatica e inseguire il vento, tutto inutile lavorare, tutto inutile credere, tutto inutile stare insieme. Se poi ci siamo perduti, se ora non ci sappiamo ritrovare, se ora davvero capiamo di non avere niente davanti e tutto dietro.

E a niente è servito rimandare le nostre decisioni, a niente è servito metterle subito in pratica. Niente è servito a niente.

E il sole si rifrange sui cristalli e diventa mille soli sul parabrezza ghiacciato, rigetta la luce e acceca.

Mi ricorda un giorno di gennaio, quando Reuben venne, freddo, e mi raccontò qualcosa. Un giorno come molti altri, rapidamente dimenticato fino ad oggi, un giorno forse solo un po’ più freddo, un giorno che poteva ghiacciare le lacrime, il giorno in cui non gli credetti, il giorno in cui lo persi, il giorno in cui Reuben sembrò volare in alto, il giorno quando il vento gelido spazzò le ultime nuvole dal suo cervello e nel quale parlò il linguaggio che non sapevo capire, il giorno dal quale Reuben divenne il mio persecutore e nel quale mi lasciò le armi perché combattessi dopo di lui. Solo ora ricordo. Solo ora ricordo.

“Il sole è freddo. Il freddo sta spegnendo i raggi del sole. Il sole è freddo. Questa mattina il sole è sorto a ovest. C'è un'aquila dietro la mia finestra. Le mie dita cercano le nuvole. Ho fra le mani il profumo inerte del vapore. Mi scivola fra le dita. Il cielo oggi non tocca il mare. Ho gettato il mio pane nell'acqua per nutrire i gabbiani. Mi sembra che il cielo non tocchi il mare. I miei occhi vedono male. Le mie orecchie non sentono. Ma tutto è così chiaro. Conosco il cielo quando tocca il mare. L'ho incontrato tante volte di notte. Avevo sentito battere il mio cuore e mi ero spaventato. Molti cuori che battevano. Ho gettato il mio pane sull'acqua e i gabbiani lo hanno mangiato. Avevo visto il sole giocare sulle pozzanghere. Avevo camminato sui tappeti del sole. Conoscevo il sole caldo. Ero stato amico del vento. Il vento era stato amico mio. Il vento toccava il mare e il mare ruggiva. Allora il sole non aveva freddo. Allora non sapevo che anche il sole diventa vecchio. Era un tempo nel quale la pioggia rinfrescava le mie ferite. Sentivo il suo suono. Cercavo e trovavo la via del castoro e la via del bufalo. Il mio cuore aveva sete e si dissetava. Ero un uomo libero. Potevo parlare con le piante. Le mie dita non sono più agili. Sono diventato uno solo. Un tempo ero molti. Il tempo è passato sulla mia carne e ha formato profonde fratture dove scorrono torrenti. Guardo le montagne e la neve si è sciolta. Immobile il sole è freddo. Non trovo più l'orizzonte. Ho gettato il mio pane nell'acqua. E i gabbiani lo hanno mangiato. Non sento più le cicale. Il mio orecchio si è spento. Non sento più le parole della notte. Non c'è la luna di fronte alla mia finestra. Vedo un'aquila dalle ali scure. Sciabordio sui fianchi della canoa. Un tempo. La risacca che si allontana e torna. Prendo un sole freddo fra le mani. Sono in piedi. Torna la neve. La bufera. Il vento del nord muove. Tornano le grida dei morti. Il silenzio.

Il mio cuore è triste per il coraggio che deve andare.

Il mio cuore è triste per ciò che è cambiato.

Il mio cuore è triste per l'incapacità.

Il mio cuore è triste perché piange i suoi figli.

Il mio cuore piange in silenzio nel deserto.

Il mio cuore ha conosciuto la sconfitta.

Il mio cuore piange sui tempi che vanno e muoiono.

Il mio cuore non mi appartiene più.

Ho perso il mio cuore in battaglia.

La mia guerra è finita.

Il mio popolo non trova più la volontà di combattere.

Il mio popolo che aveva vinto sui monti ed era temuto.

Il tempo per vincere è finito.

È finito il tempo del mio popolo.

Il mio cuore è triste fino alla morte.

Il mio cuore piange il sapore dell'esilio.

Le mie lacrime irrigano la terra per nutrire frutti per il mio popolo ferito.

I sogni cercano la loro strada e io li seguo. Ho raccolto poche cose e vado. Seguo i miei sogni. Devo andare da solo. Il tempo è cambiato. Si sono allargati gli spazi. Forse c'è posto. Non è più tempo per combattere. Il vento è cambiato. Soffia da nord. Viene l'inverno. Le nuvole seguono il vento e portano pioggia. Il sole diventa una stella. Dissemino la strada di ricordi. Forse seguendoli mi puoi ritrovare.”

Io non lo capivo, e ora mi sento come il vecchio stregone Navajo.

Mi vergogno davanti alla terra.

Mi vergogno davanti ai cieli.

Mi vergogno davanti all'aurora.

Mi vergogno davanti al crepuscolo.

Mi vergogno davanti al cielo azzurro.

Mi vergogno davanti al sole.

Mi vergogno davanti a ciò che è retto in me.

E con me sta parlando.

Alcune di queste cose mi guardano sempre.

Non sono mai fuori dal loro campo visivo.

Perciò devo dire la verità.

Tengo stretta al petto la mia parola.

Dove sono i miei retti pensieri e la mia lucidità?

Dove la mia capacità di attuarli?

Dove la serenità di guardarmi intorno?

Dove la serenità di guardarmi dentro?

Dove sono cadute le mie armi?

Sono tornato a rotolare su me stesso. I miei occhi sono ricaduti sulle mie spalle.

C'è qualcosa che ancora mi sfugge, qualche ricordo annebbiato che annacqua o concentra la verità. Dove sta la verità? Il mare si richiude sulle conchiglie intarsiate. Svaniscono i profumi e i sapori.

È difficile riconoscere il senso delle cose inutili.

Ora ricordo la storia di Reuben, il suo bilancio.

“Credevo davvero che sareste spariti, credevo che avremmo avuto ragione, credevo fosse giusto pensare che i tempi stavano cambiando, che saremmo serviti a qualcosa o a qualcuno, che il sole sarebbe tramontato e rinato per noi. L'attesa aveva il suono della vendetta e del sollievo e noi aspettavamo il nostro momento e non sapevamo che non sarebbe più venuto.

Poi qualcuno di noi si è stancato di aspettare, fino a che parlare di noi perse ogni significato. La nostra poca pazienza era giustificata perché eravamo giovani e impazienti. I nostri desideri resistettero nei primi giorni, poi ho visto scivolare giù per i pendii ghiaiosi la nostra pazienza, alcuni di noi sentirono parlare di cose molto buone, tante piccole cose buone che portarono via coloro che si accontentarono. Scoprimmo che pochi di noi erano disposti ad arrivare in fondo.

Poi si assottigliò la lingua di terra fra la nostra infanzia e un grande paese sconosciuto, e le acque inghiottirono qualcuno, altri, spaventati, si misero a correre verso la terra e sparirono fra i canneti e ci dimenticammo.

Disseminati qua e là su una striscia di sabbia, l'acqua cominciò a lambire i nostri piedi nudi. Non avevamo jeans addosso né giubbotti contro il vento né fiori fra i capelli né profumi forti, lasciando che la risacca assorbisse l'argilla e ci conducesse il sussurro forte del vento delle terre serene che avevamo dimenticato. Allora mi alzai e girai lo sguardo verso la mia terra, verso la terra per la quale avevo combattuto, la terra dolce-amara dei miei sogni e della mia infanzia. Avevo le mani insanguinate e fra le mani nulla. Nudo e solo il mare si richiudeva su di me, e cambiò il vento verso il mare. E le mie gambe stanche avevano davanti una strada che si era richiusa su se stessa. Il cerchio si era chiuso e non restò nulla. Se non andare. Vivere senza rifiutare nulla di ciò che hai davanti è l'unica cosa da fare. Anche se non cambia nulla.”

Così dopo poco tempo se ne andò e non fu più fra noi e fu già ora di scrivere il suo necrologio. Cosa resta di lui? Chi era? Non restano che supposizioni e inganni della memoria. Quello che Reuben fosse sul serio è un po’ difficile dirlo. Forse si può pensare che non sia neppure esistito o che sia esistito in altri tempi che non sono più i nostri. Si può pensare con la stessa convinzione che invece sia vivo o sia piuttosto morto o impazzito. Si sa di lui che era un tipo tranquillo, che vestiva sempre in jeans e maglietta colorata, indossava scarpe sportive e qualcuno lo ha visto girare d'inverno in mezzo alla neve in maniche corte. Io non lo ricordo. Quello che ricordo l'ho scritto, anche se sono molte le cose che non hanno trovato posto, ma molte di più quelle che ho dimenticato o non ho capito. C'è qualcuno, come Cinzia, che conosce le cose meglio di me. Ma aguzzate un attimo la vista, provate a tendere l'orecchio, guardate un po’ più in là, al di là di quell'albero verde, oltre quella distesa di rovi. Pochi passi più in là c'è il silenzio della notte o il fragore dell'ultimo fianco di montagna che frana. Pochi passi più in là c'è l'ultimo passo, il primo passo di una strada, o solo ancora un passo dietro l'altro. Uguali, un metro, un metro. Superi chi si ferma e guardi indietro e ritorni per induzione o simpatia ad essere stanco. È ora di fermarsi. Autostrada della vita. Lame di coltello attraverso la campagna piatta.

Piatto come un cervello stretto e dritto dove, come minuscole automobili colorate, di quelle che si usano per i plastici dei trenini, le idee si distendono lungo un paio di corsie. Ma io non ho autostrade in testa, tutto è molto difficile.

Mi viene in mente quando camminavamo in collina, fra alberi appena verdi di primavera e nidi di processionaria, ciottoli e fanghiglia, pozzanghere inguadabili e piccoli ruscelli e sassi. Così, per capire, devo ricordare tante cose, ritrovare segni, tracce, orme. Ci sono cose che si cristallizzano e si fermano a mezza altezza da qualche parte nello spazio. Ci sono cose che non sono mai successe e che ugualmente restano conficcate per terra come punte di ghiaccio.

Quando fai un'esperienza la fai da solo.

Quando impari qualcosa impari da solo.

Quando sbagli sbagli da solo.

Quando gridi gridi da solo.

Quando piangi, se sai piangere, piangi da solo.

Quando prendo in mano una penna e la guido su un foglio, la faccio scivolare lungo misure convenzionali che diventano agli occhi di molti verità o idee fissate o ricordi storpiati, oppure solo strane e fallimentari intenzioni, perché l'inchiostro si rigira, come si rigira la mia coscienza, come i miei pensieri mi girano intorno e io li inseguo con un retino da farfalle, quando indugio, invece, a stringere le pupille sulla lampada, o quando tormento la catenina che ho al collo.

Lo faccio perché sono solo, perché non c'è nient'altro che valga la pena di fare.

Anche quello che faccio è inutile perché non ho il coraggio di cercare, neppure il coraggio di fidarmi, neppure volontà di cambiare. Manco di senso del futuro. Reuben ci ha cacciato un'eredità nella carne.

Nelle mie condizioni dovrei decidere. Ma ho paura. Oh, non fosse mai giunto questo momento. Ma sono imbarcato.

Ma come potrei camminare la notte lungo la spiaggia fosforescente, se non fossi mai stato con lui? Come potrebbe la mia strada stringere le curve e inerpicarsi, poi scendere a precipizio, poche corde d'acciaio a cui aggrapparsi?

E Cinzia che mi sorride mi insegna ancora qualcosa, Cinzia che mi sorride da un grattacielo gemello, e il grattacielo di Reuben è salito al cielo o sprofondato nella terra, e lo vedremo scendere o salire e tornare in abiti nuovi, sorgere come un vulcano o balenare come un fulmine vicino a noi quando sarà tornato il suo tempo. Ma forse non sarà lui, ma i suoi doni e il suo sacrificio, solo ancora tutto il suo amore e tutto il suo odio.

E ritrovare Francesca quando i tempi sono cambiati. Sorridere o turbarsi all'incontro. Seduta sulla sabbia, mentre tutti tornavano alle tende. E mi sedetti, chissà perché, vicino a lei e restammo in spiaggia noi due.

Mentre la guardavo e tacevo Francesca si mise a piangere. Era la prima volta che la vedevo piangere, mi ricordavo quante volte le avevo detto che non ne era capace. Non sapevo come fare per consolarla, pensavo che piangesse per colpa mia, mi capitava spesso di essere sgarbato, ma disse no, non era colpa mia.

Una storia senza conclusione. Una storia dimenticata.

Ritrovare Francesca è ritrovare tante di queste storie dimenticate. Forse storie false, immagini e basta lasciate troppo a lungo nella memoria al punto da diventare storie vere. Le cose hanno preso vie diverse e nuove. Solo noi siamo rimasti uguali. Io e Francesca che non ci capiremo mai, che non abbiamo niente da dirci e ancora l'esigenza di giustificarci.

Ritrovare Francesca per scoprire che la realtà è fatta di parole e pensieri, di convinzioni e pregiudizi, non fatti.

La vita cammina davanti alle idee, va avanti e non si ferma con me a pensare. I miei pensieri mi sfuggono, trascinati dal tempo che si allontana. Oppure non trovano più la realtà e diventano pensieri fuori tempo. Il tempo non cammina con un ritmo costante, rallenta e accelera e io resto disorientato. Così qualche volta invidio i monaci col loro tempo regolare e scandito che non li scavalca mai, il loro tempo fuori della storia, il loro ritmo. Io passo intere settimane senza pensare, senza riflettere, poi resto sveglio fino a mattina per ricuperare, ma intanto il tempo è andato. Allo stesso modo scrivo. Non ne sento il desiderio per un mese, poi passo le giornate alla scrivania, ossessionato. È perché Reuben ritorna, Reuben che amo e odio in uguale misura, Reuben che vagabonda da un cuore all'altro e da una città all'altra.

Ritrovo Francesca e sento Reuben fuggire.

Ma se voglio essere vero devo decidere e non posso decidere per il no. Può essere l'ultima opportunità di agire, di prendere parte, e, anche se ne ho una paura terribile, devo dire sì, come avrebbe detto Reuben, sì, voglio sì, uscire da questa stanchezza, da questo rigirare del coltello, da questo ripetere che ho capito cosa vuoi dire, ho capito cosa vogliono dire loro, ho capito cosa è il caso di fare, ho capito dove sta la ragione, ho capito, insomma, parole e basta, ho capito l'universo pieno di parole, non quello della polvere stellare che sta ferma, quieta e indifferente alle parole.

Allora facciamo i fatti, dice qualcuno, mettiamo mano alle nostre mani per costruire, lavorare, agire, muovere, cambiare, murare, progettare, cementare, are, ere, ire.

Ma mentre migliaia di operai costruiscono dighe e centrali lungo i torrenti, i salmoni risalgono ancora la corrente e ancora gli orsi attentano alle loro vite e il leone ripara dal sole sotto un albero dalle larghe foglie, il salice stende verso terra i rami verdi di primavera, i continenti si spostano lungo le dorsali e l'uomo e la sua sapienza, la sua intelligenza, la sua scienza cammina da solo incontro alla morte.

Incontrare Francesca significa ritrovare vecchi temi che tutti conoscono, significa ripetere fino alla nausea le stesse cose che si ripetevano fino alla nausea sei anni fa. Ritrovare Francesca, riparlare di Francesca, significa riparlare delle stesse cose, nello stesso modo in cui se ne parlava sei anni fa, cinque anni fa, quattro anni fa, tre anni fa, due anni fa, un anno fa. Francesca è il mondo che non muta. Perlomeno che non muta ai nostri occhi. Francesca è il mondo immobile, ossessivo e ripetitivo, una storia circolare che si allarga o si stringe, ma ha sempre la stessa lunghezza.

Francesca ha un volto sereno e nasconde i suoi problemi, poi li getta fuori tutti in un colpo e appare strana e inconsolabile.

Si fa fatica a credere alle crisi di Francesca. Ha la faccia troppo carina. È la spina nel fianco del passato che pensavo di avere dimenticato e che invece torna puntuale a ritorcersi nella carne e fare male.

Abbiamo tutti qualcosa da nascondere.

Spesso anche cose innocenti.

La legge è fatta anche di promesse e di una buona reputazione.

Abbiamo tutti qualcosa da nascondere.

Ritrovare Francesca è confrontarci sulla base della legge senza volere essere sinceri, senza volerci scoprire.

Sono paralizzato dalla paura del passato, dall'idea di una nuova immagine di me, dalla lontananza di Reuben.

Però ora, con l'alba, anche la mia mente si schiarisce, anche le sue ragioni diventano luminose, anche decidere sembra possibile. Sarà perché sono così stanco.