Il testo che segue è il Capitolo XVII di Annali di Zaruby - Libro V - Non per noi esistono le stelle
Io sono nato da famiglia modestissima e meccanica in un paese minimo e sperduto noto solo per una pieve dedicata a Sant’Andrea e per i bellissimi cipressi delle sue colline, eppure la Fortuna mi ha portato a conoscere uomini importanti come vostro padre Tebaldo, l’impe-ratore Federico, il re Bela di Ungheria, un superiore dei Domenicani, cavalieri teutonici, baroni, dottissimi monaci, erranti, angeli, genieri cinesi, professori di Parigi e tramite tutti questi a conoscere fin quasi intimamente, seppure solo nella mente, la regina Eleonora, Luigi di Francia, vari papi, Giovanni di Salisbury e Abelardo, Tommaso Beckett e, insomma, sentirmi parte di una storia grande come il nostro mondo, che è poi così piccolo da consentire a un uomo comune di avere conosciuto, personalmente o per sentito dire, tanti di coloro che per qualche ragione si dice valga la pena conoscere.
Zaruby, così periferica, così oscura, così schiva, attraeva i destini del mondo come una calamita attrae i metalli. Persino il vuoto che ora Zaruby è mi sembra l’invisibile motore immobile di tutto, forse perché intorno ad esso continua a gravitare il mio pensiero e il mio pensiero è tutto ciò che ho e ciò per cui vivo; ma mi accorgo che ogni volta che torno a quel mondo vi si agglomerano intorno tutti gli altri mondi e riemergono nomi e paesi e storie, tutti così interconnessi fra loro da lasciarmi stupito. Forse ogni più piccola cosa di questo meraviglioso mondo è il centro di tutto e la percezione che noi abbiamo di un centro è data solo dalla naturale necessità di misurare ogni cosa rispetto alla sua distanza e pesarla su una bilancia che ha i bracci inversamente proporzionali alla rilevanza che tale cosa ha per noi: più ci importa, più il braccio si allunga verso l’orizzonte così da renderla pesantissima; meno ci importa, più ci si avvicina e, a dispetto della sua imponenza, la possiamo trascurare.
Avviene infatti, mia gentile Signora, che il rabbuiarsi di uno sguardo di Ada mi renda inquieto e infelice mentre un suo sincero sorriso rallegri una giornata difficile, faccia passare la fame e relativizzi il freddo, così che queste realtà che sembrano indifferenti a noi, fiumi inarrestabili del grande fluire del tempo, vengano piegate e trasformate da un piccolo moto delle labbra, da una parola gentile o da un sguardo cattivo: d’improvviso tutto muta rapidamente ed ecco che nomi e vicende che sembravano lontani e insignificanti ci si avvicinano e diventano parte dei nostri pensieri e dei nostri interessi, l’ignoto ci diventa familiare e ciò che era slegato si lega come in un arazzo ben congegnato. Scaturiscono poi da tutti questi nuovi legami simbologie curiose, assonanze e vicinanze di cose che fanno pensare, come mi accadde nell’autunno scorso relativamente alle anatre che continuavano a ripresentarsi nei più disparati modi: sarà perché a un certo punto ci si fa caso, ma quando ci si fissa su un’idea sembra che ogni cosa congiuri perché proprio quell’idea si manifesti nella realtà. Ci saranno in effetti state da sempre migliaia di anatre a Zaruby, ma io non le avevo mai osservate e per me era come se non esistessero. Dom Willembordo diceva che anche i banali eventi atmosferici si manifestano nel momento stesso in cui noi li percepiamo. I cani cominciano a diventare inquieti ben prima che arrivi la tempesta perché la percepiscono come già presente e si comportano di conseguenza; se noi invece ci trovassimo in un palazzo dalle mura robuste, lontani dalle finestre, potremmo non accorgerci neppure dell’imperversare di un violento nubifragio e continuare serenamente a fare le nostre cose. Persino i nomi delle cose, aggiungeva Willembordo, ci consentono di vederle: se la nebbia non avesse un nome noi non sapremmo che c’è nebbia e percepiremmo solo confusamente di vederci meno bene. Dom Willembordo amava i paradossi, ma non aveva del tutto torto: se io non so come comportarmi con Ada è perché non conosco il nome di ciò che provo, perché ciò che provo non rientra nei canoni di alcuna forma di amore di cui abbia sentito parlare. Privo di nome questo amore, perché comunque una forma di amore è, sbanda in un pianura mutevole come un fiume in una valle alluvionale.