Il testo che segue è il Capitolo XIV di Annali di Zaruby, Libro II - Gli Erranti
E Reuben, mi chiederai? Che fine ha fatto?
Capitò che quel ragazzo che non si sapeva da dove venisse, diventato adulto non si è più saputo dove fosse andato. Fra i caduti in battaglia non c’era. Nei boschi il suo corpo non fu trovato e nessuno seppe mai se fosse stato gettato in una fossa o, dimenticato, fosse stato mangiato dai cinghiali. Non è finito sul rogo quando i nostri nemici si presero la loro ridicola vendetta. Misterioso come quando era giunto al convento, così svanì nell’aria non lasciando nulla.
Aveva avuto un solo figlio dalla moglie che gli era morta giovane e negli ultimi tempi era diventato, o meglio era tornato ad essere, ombroso e solitario. Frequentava ormai più il monastero, dove dirigeva il coro, che il palazzo di Prievaly. Frequentava Aengus e studiava i libri degli Erranti. Smise di usare il cavallo e riprese l’uso giovanile di spostarsi solo a piedi, spesso correndo. Tornò magro e pallido e riprese a cantare con la voce di controtenore che aveva in gioventù. I suoi occhi neri brillavano al fuoco nelle notti estive quando nella radura davanti al monastero intonava i nuovi canti che aveva composto su antiche melodie apprese da Aengus. La smania di viaggiare lo aveva riconquistato, giusto in tempo per la guerra, quando ampliò la compagnia dei lupetti e il gruppo degli orchestrali. Durante la guerra causata dalla nuova, possente invasione mongola, lasciata Prievaly divenne un nomade sempre in viaggio fra i villaggi della regione, Devin, i feudi oltre Trstin. Si spostava da solo o con una piccola scorta di lupi, negli ultimi anni portando con sé il piccolo figlio, ormai pienamente inquadrato nella compagnia dei lupetti. Dormiva in piccole capanne sulle colline o in minuscoli letti sotto le foglie e quella vita errante lo restituì a se stesso.
Ero più giovane di lui, ma mentre io invecchiai come normalmente accade, lui invecchiò in fretta e poi, in fretta, tornò giovane. Nei dieci anni che visse come signore di Prievaly si limitò a godere della vita agiata che la rendita offertagli da Thomas gli garantiva e, salvo che per lo studio dei libri degli Erranti, la sua vita si conformò a quella dei cavalieri che aveva sempre disprezzato: ingrassò, sebbene non molto, cominciò a bere vino dolcificato e selvaggina, apprese a cavalcare e a combattere da cavallo. Raramente diede piccole feste, nella misura in cui i benefici lo consentivano, più per il piacere di suonare che per incontrare i suoi pari, che non smisero mai di condividere con lui una reciproca ostilità frutto del sangue, del carattere, o di entrambi. L’unico signore con il quale aveva confidenza era Mesko, perché anch’egli era stato armato provenendo da una comune famiglia di contadini. Ma Mesko amava i cavalli, mentre Reuben a fatica aveva appreso a cavalcarli. Reuben amava la musica e Mesko era stonato e poco interessato ad apprendere. Spesso i due sedevano davanti al fuoco, Reuben a suonare la viella, Mesko con in mano un boccale di vino di Modra a guardare le lingue di fuoco, muti e meditabondi come due intristiti signori condannati ad essere ciò per cui non sono nati, troppo modestamente ricchi sia per piangere su se stessi che per fare liberamente ciò che il desiderio gli ispirava.
Di giorno Mesko era felice, preso dai suoi allevamenti di cavalli, ma la notte era troppo lunga e lui troppo misurato perché la sua giovinezza si potesse acquietare in bevute e canti. Sorreggendosi, le loro malinconie producevano un nido caldo, tollerabile, chiuso. Nessuno dei due amava parlare, ma entrambi apprezzavano di poterlo fare quando ne avevano voglia, sapendo di trovare nell’altro un ascoltatore paziente, muto e tollerante. Così capitava che Mesko fosse il primo ad ascoltare un nuovo componimento, e del suo parere Reuben teneva grande conto, non perché ne avesse grande stima, ma perché Reuben era sempre stato troppo sensibile alle critiche degli intenditori o dei sedicenti tali. Il blando, soggettivo parere di uno che di musica non si intendeva e non si interessava, positivo o negativo che fosse non faceva né bene né male ed era solo un tributo di amicizia. A sua volta Mesko parlava di incroci fra razze, di destrieri da guerra e cavalli da tiro, di nuovi collari da aratro, ma soprattutto del suo grande incubo: la ferratura dei cavalli.
Aveva studiato la questione fin da ragazzino, quando gli era capitato, in una stalla di Stupava, di assistere all’inusuale ferratura di un cavallo da torneo. Aveva sperimentato diverse fogge di ferro: più spesso, più largo, sagomato, diventando lui stesso un mezzo fabbro per dare a quell’affascinante arnese la giusta forma. A tale riguardo, fonte di grande preoccupazione era per lui la fornitura di ferro, che si doveva importare da lontano e che sembrava sparire da sotto le zampe dei cavalli quasi consumandosi nell’aria. Fra ferri che si staccavano e ferri che si consumavano, si era sempre in carenza di metallo.
Una sera in cui mi ero intrattenuto con loro a Prievaly a causa di un contratto che avevo compilato, Mesko mi rese edotto intorno alla misteriosa questione dei ferri di cavallo mentre Reuben musicava una ballata che diceva:
A causa di un chiodo si perse lo zoccolo
A causa dello zoccolo si perse il cavallo
A causa del cavallo si perse il cavaliere
A causa del cavaliere si perse la battaglia
A causa della battaglia si perse il regno.
Tutto questo a causa del chiodo di un ferro da cavallo.
Mentre Reuben cantava, Mesko precisava che la perdita di un chiodo poteva non essere poi un gran dramma perché il ferro era tenuto da ben sei chiodi. Certo, se di chiodi se ne perdevano due… Ma era chiaro che non si doveva arrivare alla battaglia con i chiodi allentati, e per farlo si doveva avere una buona scorta di ferro e fabbri capaci di fare buoni ferri; e almeno tre volte ogni due mesi, quei ferri, toccava cambiarli.
Ma a cosa servono i ferri, chiesi io, visto che i cavalli selvatici certamente non si ferrano da soli?
E lui mi spiegò che i cavalli selvatici possono fare a meno dei ferri perché non devono portare il peso di un uomo che obbliga il cavallo a muoversi in modo del tutto innaturale. Inoltre vivono all’aperto in grandi spazi, si nutrono di cibi freschi e, soprattutto, non hanno gli zoccoli a continuo contatto con l’urina, come accade nelle stalle. E poi, aggiungeva, i cavalli selvatici vivono per se stessi, quelli dei miei allevamenti servono per l’esercito e per tirare gli aratri, quindi devono essere efficienti come soldati e come agricoltori. E chi non preferirebbe un soldato ben calzato a uno scalzo?
Così Mesko, che faceva di tutto per acquistare il ferro necessario alle centinaia di cavalli che allevava nella valletta di Bukova e nei pascoli circostanti, mi specificò nel dettaglio quanti ferri doveva far costruire ogni giorno per garantire il ricambio agli zoccoli dei suoi trecento cavalli da battaglia: sessanta al giorno. E, ovviamente, trecentosessanta chiodi (e, cantava Reuben, a causa di uno di essi si perse un regno).
Quindi: fai arrivare il ferro in misura di una libbra circa per ogni ferro, compresi i chiodi; procurati la legna e il carbone per le fucine; addestra e paga fabbri e maniscalchi; procurati carretti robusti trainati da cavalli (che a tirare tutto quel peso si rovineranno gli zoccoli così da dover essere a loro volta costosamente ferrati). Solo per i ferri se ne andava il lavoro di più di dieci uomini, senza contare quanto tempo si perdeva a trattare con mercanti e mediatori.
Sai Mesko, disse Reuben, che talvolta mi ricordi Almaron?
Perché? chiese lui.
Perché hai la sua stessa fissa di contare tutto, fare elenchi, misurare…
A me Almaron, disse Mesko, non era poi così antipatico. C’era in lui qualcosa di profondamente umano che l’orgoglio gli impediva di manifestare. E poi è morto gloriosamente, e si è riscattato.
Io ero incuriosito da questa questione del riscatto, ma non osavo chiedere. Almaron era morto nella battaglia di Bukova e Reuben e Mesko avevano ricevuto le rendite dei suoi villaggi: Reuben di Prievaly, Mesko degli altri quattro.
È vero, disse Reuben. La morte finisce per assolvere molti. Quasi, perfino, il barbaro. Ci fu qualcosa di solenne nel suo cadere da cavallo con quella freccia nell’occhio. E non cadde in una posizione grottesca o sconveniente. Cadde di schiena e rimase lì, con quell’asta che gli spuntava dall’occhio come un Polifemo, le braccia aperte, troneggiante come se dormisse e con intorno tutti quei servi attoniti.
Non spetta certo a noi giudicare, disse Mesko. Ognuno ha la sua storia e chissà se anche noi non saremmo stati simili a lui avendo vissuto nelle stesse condizioni. Ciò non toglie che i ferri di cavallo siano un grande problema.
E Reuben si rimise a suonare.