Prefazione a Plagi, di Mirco Cittadini

Un noto italianista, nell’approcciarsi al libretto de Il Trovatore del Cammarano, giunto al passo in cui Leonora morente esala su un doppio settenario, aereo e struggente (“Prima che d’altri vivere/io volli tua morire”), si chiedeva se il Cammarano, scrittore colto e avvezzo a ricami intertestuali, fosse debitore alla raciniana Andromaque il me sera plus doux/de morir avec lui qui de vivre avec vous” o all’equivalente verso dall’Adelchi, “Io viver tuo guerrier quand’io potea/morir quello d’Adelchi”.

Perché i libri, quelli veri, quelli destinati a durare e non l’effimera esibizione di scriventi da botteghino dentro copertine patinate e lo sfarzo di improbabili successi mondiali e esaurimento di copie, sono in fondo un continuo prelievo da altri libri.

È lo stesso Autore a confessarlo, placidamente, nella sua introduzione: “Siamo insomma, noi scrittori, una manica di ladri, di banditi, di birbanti matricolati. Rubiamo con la destrezza dei politici e la coscienza di Robin Hood. Ma a rubare così, sotto gli occhi ampiamente chiusi di tutti, non c’è alcun gusto. Come tutti i criminali, abbiamo anche noi bisogno che il furto venga svelato.”

E già l’Autore si era ritrovato a rubare nelle sue opere precedenti, saccheggiando da Omero a Joyce, intrattenendo (e impegnando) il suo Lettore Modello in estenuanti giochi bibliografici.

Perché il furto letterario è sempre un atto giocoso che richiede complicità e conoscenza.

Questa volta però il gioco si fa più interessante e in qualche modo apre questioni.

La prima questione riguarda il tema dell’originalità, concetto romantico forse troppo sopravvalutato in tempi di copyright e diritti d’autore.

I Plagi si riferiscono ad un’auctoritas, all’omaggio ora commosso, ora competitivo, verso un autore passato, al desiderio di riproporre in chiave nuova, leopardiana, opere quiescenti bisognose di essere ridestate.

Il plagio è memoria, il plagio è sfida, il plagio è retorico atto d’amore.

Ci si chiede del perché si debba riscrivere un’opera già scritta, ci si chiede se l’Autore presuma superare il modello, ci si chiede se egli sia sempre riuscito nella sua impresa.

Si potrebbe rimproverargli una mancanza di fantasia, un ripiegarsi comodo a temi o intrecci, già esplorati.

L’Autore, quando faceva l’insegnante, quando parlava della letteratura, amava evidenziare quanto essa fosse un immenso latrocinio da Iliade, Odissea, Tragici e Bibbia, un forziere che ancora oggi si mostra generoso e abbondante, a dire che tutto è sempre e inevitabilmente plagio. A dire che tutto quello che si doveva dire è già stato detto da altri e meglio.

Ma quello che prima era appunto un gioco, un furto discreto, surrettizio, quasi notturno, ora viene dichiarato, annunciato, svelato.

Il rischio è grande, perché nel gioco svelato l’Autore si pone in gara con i suoi modelli, con se stesso e con chi legge, fornendo tutte le indicazioni per essere colto in flagrante.

E qui si pone la seconda questione: il rapporto col Lettore.

In un certo modo Plagi costringe a confrontarci con dell’altro, con una biblioteca virtuale che dobbiamo consultare e conoscere.

De Sanctis, Ghislanzoni, Zola, Pellico, Ovidio, Bierce, Fenoglio, Meneghello, Imbriani, il libro di Giona, Buzzati, immeritatamente il sottoscritto e fatalmente se stesso.

Il Lettore dovrà procurarsi gli altri testi, confrontare quasi riga per riga (come nel calco di “Un bagno”), per apprezzare appieno l’opera. Il Lettore, quello vero, quello che non si accontenta, dovrà capire perché nel passaggio da testo a testo alcuni particolari siano stati omessi, altri aggiunti, altri manipolati. Godrà di certi pieni, godrà soprattutto di certi vuoti.

E questo offre un’altra visione di Letteratura, quella vera, quella imperitura: che la Letteratura mal sopporta i Lettori pigri o poco curiosi, che la Letteratura, quella vera, scomoda e costringe alla ricerca, all’approfondimento, alla rilettura.

Un libro, un classico, difficilmente darà tutte le risposte al suo interno ma rimanderà sempre a qualcosa di fuori, di esterno.

Un libro è un libro se ti fa venir voglia di leggere altri libri.

Sono ancora questi tempi adatti per i Plagi e per Lettori di plagi?

L’Autore, nella sua posticcia misantropia, è un fiducioso e forse nell’uomo, pedagogicamente, ci crede ancora.

Il primo racconto è sfacciatamente programmatico, l’introduzione fornisce tutte le chiavi di lettura, il corredo meneghelliano di Notarelle aggiunge i retroscena. Mai l’Autore si era preoccupato tanto che il Lettore fosse messo nelle condizioni di capire e apprezzare.

Siamo così sicuri però che l’Autore sia sempre onesto con noi? Che il gioco sia proprio quello che ci mostra con tanta dovizia di dettagli?

Anche perché gli scrittori dai quali attinge già di per sé erano ladri esperti, e rubare a dei ladri complica maledettamente le cose.

Quando il Ghislanzoni inizia la sua novella (“Partita a quattro”) con: “Ho passato otto giorni a Tartavalle. (Nessuno dei miei duemila lettori ignora, che a Tartavalle v'è una fonte di acque ferruginose, intorno alla quale si adunano nel luglio e nell'agosto i sedicenti malati e gli ipocondriaci delle nostre provincie)”, il Lettore smaliziato coglierà immediatamente un divertito echeggiamento da “I Promessi Sposi” e il Nostro, di rimando, nell’affrontare Ghislanzoni (“Un plagio”) che a sua volta guarda altro, non può esimersi dallo scrivere: “Potete trovare facilmente il mio indirizzo, ma non suonatemi alla porta. Come Manzoni, non sopporto la gente che, non sapendo come impiegare il tempo suo, mi fa perdere il mio.”

E così la traduzione da Giona in parte si pone in polemica con la medesima traduzione di Erri de Luca, e di queste delizie Plagi ne è pieno, ponendo insieme scrittori morti con scrittori viventi, in un dialogo serrato e complesso.

Quello che però provo a chiedermi è che senso abbia tutto questo. È solo un divertimento letterario o dentro ci si può intravedere dell’altro?

E se alla metafora del furto preferissimo una metafora diversa, di tipo naturale?

Se i Plagi non fossero semplicemente un furto, ma avessero una finalità trasformativa?

Scriveva il Da Ponte: “Come ape ingegnosa / Su lucidi albori /Da teneri fiori /Sa il miele cavar./ Così da un tesoro /Di musiche note /Coll'arte si puote /Un dramma formar.”

Il Nostro, mellifluo, cava dal florilegio di letture a lui care il miele per formare un dolce dramma. O forse per addolcire il suo dramma.

Ma di quale dramma si tratta?

Plagi è l’opera più scopertamente autobiografica di Roberto Leopardi. Più ancora che “Altri tempi”, più ancora che il primissimo “Reuben”.

Perché quello che Plagi dolcemente confessa è che ogni scrittore parla sempre e solo di se stesso, usando però le parole di altri.

Quelle prime, quelle che mai riusciremo ad eguagliare.

E poteva il Nostro, pudico e riservato per indole o vezzo, parlare degli imbarazzanti scompensi a seguito di un’operazione, senza camuffare il tutto nella pomposità ottocentesca di un Maroncelli? O poteva ficcare il naso nel mondo di internet e dei social network senza giustificare il tutto con il remake di un racconto epistolare? Poteva addirittura addentrarsi in temi licenziosi senza la garanzia di un Imbriani, attraverso la maschera di sacerdoti extra ordinari?

Plagi parla della vita di Roberto Leopardi, non necessariamente quella vissuta, anche quella che non si sognerebbe mai di vivere, anche quella fumettisticamente vagheggiata.

Il che è pure logico, l’uomo è ciò che legge, parafrasando quello, e Roberto Leopardi è autenticamente i libri (il miele dei libri) dei quali si è nutrito.

La paura dei cambiamenti di Dino Traverso (Il corridoio delle Municipalità) è la sua paura dei cambiamenti, il silenzio di Giona è il suo silenzio.

Se parlare della propria vita è sempre un po’ mentire, usare i libri (le vite) di altri è un po’ attutire la menzogna, renderla lene.

Il gioco è raffinato, in fondo l’Autore sembra dirci: non parlo di me, parlo di altri, parlo usando le parole di altri, ma quegli altri sono me e le loro parole sono sempre state le mie.

Plagi e tutto l’apparato di Plagi non sono un furto, ma un atto di spudorato, commosso, illusionismo.

Per tornare al mio esempio iniziale, quello su “Il Trovatore”, un altro studioso, ancor più attento e meticoloso, si accorse che i presunti debiti del Cammarano da Racine o dal Manzoni non erano pertinenti, ma che il furto c’era ed era ben più criptico, addirittura da un tassiano “Re Torrismondo” riadattato nei versi “Dunque viver devea d’altrui che vostra[?] / […] vostra morrommi”, pronunciati da Alvida, dama spagnola, in un contesto ben più attinente allo scenario verdiano.

Questo a dire che di uno scrittore non ci si dovrebbe mai fidare, come non ci si fida de il diavolo (come dicono pure a Bologna), che gli scrittori sono maestri di menzogna, specie se di cultura.

Questo a dire che è facile riconoscere uno scrittore da uno scrivente, basta aver voglia di capirci di più, di rileggere, di sapere da dove un libro provenga e quale ne sia il bottino.

Questo a dire che nutrirsi con Roberto Leopardi (e con i fiori del suo nutrimento) potrebbe educare all’abbandono e alla fatica, le uniche due coordinate possibili per orientare la propria anima.

L’imitatore deve cercare di essere simile, non uguale, e la somiglianza deve essere non qual è quella tra l’originale e la copia ma quale è tra il padre e il figlio.” (Petrarca)