Il testo che segue è il Capitolo I di Annali di Zaruby, Libro III - Lo Spirito della terra

Mio caro amico, riprendere in mano il calamo dopo tanto tempo è faticoso e dolce, come il ritorno alla vita dopo che una febbre ti ha portato ai margini dell’oblio. Il dolore di rimettere in movimento gli arti si accompagna, in tali casi, alla speranza di potere essere fra un po’ restituito alla pienezza di me stesso, e il più breve passo è augurio di migliaia di altri più spediti, più sicuri.

Una malattia mi ha colpito poche settimane dopo avere affidato al buon mercante di Malacky la mia ultima lettera per te e sono rimasto a letto, o in sua prossimità, per quasi due mesi afflitto da lancinanti dolori che mi hanno ricordato, ma superandoli per intensità e durata, quelli successivi ad alcune ferite della mia tarda militanza nell’esercito di Zaruby. Ti racconterò forse più avanti di questo male che, ormai lasciato alle spalle sia pure con certi strascichi, mi ha accompagnato per un tempo bastevole a farmelo diventare compagno, seppure sgradito, e quindi parte della mia esistenza, ma non voglio attribuire ad esso la responsabilità di non averti scritto per così lungo tempo. È ormai primavera e, se è pur vero che per te nulla cambia perché, come sempre, mi leggerai a conclusione del mio raccolto annuale, temo che gli eventi che hanno tardato la mia intrapresa possano causare un modesto apporto di frutti; che questo libro, insomma, possa essere più breve dei precedenti e possa indurti a pensare che il mio affetto per te sia in qualche misura scemato o che l’intenzione che mi aveva mosso sia venuta meno.

L’inquietudine che provo, unita a un vago senso di manchevolezza, la provo tanto nei tuoi confronti quanto nei miei, ma più ancora nei confronti di coloro a cui devo il mio impegno di lasciare memoria. Nei giorni della mia malattia (e i giorni di malattia risultano più lunghi di quelli di ordinaria salute) ho avuto il tempo per riflettere, spiando le nuvole in cammino oltre la finestra del mio ricovero, sui legami fra noi viventi e coloro che vivi sono stati e che ora immaginiamo vivere in un’altra, migliore, vogliamo credere, condizione.

Se così davvero credessimo, se davvero fosse radicata in noi la convinzione che una vita altrove da questa terra sia certa e desiderabile, poco o nulla ci legherebbe al mondo di qui e non ci sarebbe ragione di provare un qualche sentimento di responsabilità o dovere verso chi, ignaro delle inquietudini del tempo, vive sereno nel mare morbido dell’eternità. Ma interrogandomi sulla mia personale convinzione rispetto a quel mondo di cui ci hanno detto, ho scoperto, non con sorpresa ma con orrore, di non averci mai veramente creduto e di non riuscire né essere mai riuscito a immaginare che davvero mia moglie e mio figlio e Tommaso e Cosma e Pellegrino e Clemens e tutti gli altri vivano. Dico semplicemente “vivano”, senza neppure chiedermi dove e come.

Interrogandomi in lunghe notti insonni su questo argomento, mi accorgevo che quando l’uomo affronta seriamente e senza pregiudizi il simulacro della propria fede, lo scopre spesso fatto di veli gonfiati dal vento, grandi di un volume vuoto.

Non che i miei pensieri fossero nuovi, perché gli Erranti ci avevano assuefatti a riflessioni di tale natura, ma la durata di essi a causa dell’immobilità forzata e il desiderio, in certi momenti nei quali l’acutezza del dolore era insopportabile, di lasciare questa carne pesante li hanno mutati in quesiti che non avevano più a che fare con la ragione, ma con la vita stessa.

Quella che si definisce “perdita della fede” consiste forse in un risveglio simile a quello di cui narra Platone in merito a una certa grotta, simile a quando ci si disinnamora e ci si chiede come fosse stato possibile amare quella certa persona che ora ci risulta così indifferente, così ostile.

Il sistema astrologico su cui mi erudiva Pellegrino aveva una coerenza e un rigore evidente fintantoché vi ci si stava dentro: aveva quella stessa coerenza e quello stesso rigore della mitologia degli antichi Greci, della fede cattolica tratteggiata da Paolo o da Agostino e delle certezze ebraiche quando ci vengono esposte da un fascinoso rabbino. Ma quando ci si decentra, quando si cambia il punto di vista, tutta quella coerenza si rivela fondata su un unico fragilissimo punto, come una piramide rovesciata che stesse in equilibrio sulla punta.