Reuben
Reuben è un libro rompicapo in cui l’eroe eponimo non c’è e i labili personaggi emergono nella storia come appendici abbandonate e prive di senso proprio. È la storia di un’assenza, la storia di un vuoto che il narratore cerca di riempire con ricordi e domande. Opera struggente e ossessiva, Reuben celebra la morte dell’infanzia e il conseguente sprofondare nell’inferno della vanità.
Primo libro di Roberto Leopardi, scritto fra il 1980 e il 1983, è stato pubblicato solo nel 2007 sul modello della quarta versione del 1985.
Il testo che segue riporta, con piccoli aggiustamenti, la risposta che l'Autore inviò a Mirco Cittadini per ringraziarlo di una recensione.
Ci sono poche cose più belle di ricevere una recensione gentile e profonda. Quando faccio leggere il mio libro a qualcuno ho sempre paura di rubargli il tempo. Per questo propongo con grande parsimonia Reuben e Som de l’escalina. Le tue parole mi confortano molto e mi fanno sentire bene.
Io sono convinto (veramente convinto) che i libri si fanno da sé. Sono altrettanto convinto che i libri appartengono a se stessi e che il lettore può scavarli quanto vuole ed è nel pieno diritto (ed è questo il bello e, in fondo, l’unico senso della lettura) di considerare il libro SUO, parte di sé, patrimonio del proprio stesso esistere.
Di più. Come Bernard Shaw, sono convinto che non solo la Bibbia, ma tutti i libri siano scritti dallo Spirito Santo. Capisco che il vescovo mi scomunicherebbe, ma solo nel caso non avesse capito niente dello Spirito. Gli scrittori (quelli veri) capiscono. Anche a te sarà successo di rileggerti e di chiederti chi aveva scritto quelle cose che in base al copyright (o al copyleft) risulterebbe le hai scritte tu. Anche a te sarà successo che qualcuno ti chieda cosa volevi dire in un certo punto e tu, in effetti, non lo sai, perché magari non ti ricordi neanche di averlo scritto quel punto lì. Anche a te sarà successo di rileggerti e di commuoverti, non perché la storia risveglia storie passate, ma perché è bella, perché sono belle le parole, è bello il loro distendersi in un ordine che a un certo punto è diventato giusto, immutabile. Insomma, divino.
Allora ci credo, ci credo fortemente, che l’esegesi del testo può farla lo scrittore quanto il lettore. Che il senso di ciò che c’è scritto lo sa il lettore tanto, e spesso più, dello scrittore. Perché lo scrittore non è altro che l’interfaccia dello Spirito che agisce nell’uomo (ecco perché l’editrice si chiama Lo Spirito della Terra) e il lettore è colui che rende ogni volta nuovamente attiva la potenza della parola. Credo che ogni volta che un uomo riesce a salvare la parola dall’oblio, a ridarle lucentezza e sonorità, a creare le condizioni per cui essa dica ciò per cui è creata, quell’uomo apre la porta attraverso cui lo Spirito agisce nel mondo.
Eppure mi trovo spesso a dubitare, a chiedermi se ne vale la pena di avere la testa sempre lì, al mio nuovo romanzo, al contorcersi del suo sviluppo, al rileggere cento volte ogni parola e spostarla una o due volte su cento. E sempre di più mi sento come Emily Dickinson: Quando parlo la gente mi dice: “cosa?”
Tutto questo, insomma, per dirti che la tua recensione è davvero un bel regalo mattutino, non solo per la consueta gentilezza, ma per la dedizione. Non a me, ma ai libri (e anche questo sarà successo anche a te: il desiderio che il libro sia altro da te, che non ti si legga perché amano te, ma perché amano il libro). Ma è anche vero che si sta bene a sentire di avere fatto qualcosa di buono, di avere fatto pensare, di avere dato qualche emozione.
Perché scrivere, in fondo, è solo “una più profonda vanità”. Ma poiché la vanità è la condizione stessa del vivere, scrivere è un modo profondo per vivere. Strana cosa, che vivere più a fondo sia stare in mondi altri…
Allora grazie, profondamente, per il tempo e le parole, perché le parole possono anche essere cretesi, ma il tempo no. E i lettori (quelli veri, i grandi lettori) sono così rari che il loro tempo vale più di ogni altra cosa.
Vengo alle considerazioni e ad alcune più o meno vaghe risposte.
Sull’ordine di lettura. In questo periodo ho una certa tendenza a svilire Reuben e Som, sebbene la mia editrice (che ha 22 anni) continui a dirmi che non capisco niente e che è solo perché sono invecchiato e non mi ricordo più di quando ero giovane (che abbia ragione lei?). In effetti i romanzi andrebbero letti uno dietro l’altro, ma la ragione me l’hai svelata tu con questa puntuale recensione. Potrei dire a questo punto che, se il lettore distratto può leggerli nell’ordine che preferisce, quello attento DEVE rispettare l’ordine.
Su Allen Faulkner. E’ un personaggio dalla storia intrigante. L’originale è il comandante del commando di I 4 dell’oca selvaggia, film che, in gioventù, ripassavo di continuo e che era diventato il film di riferimento del mio gruppetto di amici (quattro, guarda caso). Ciascuno di noi era identificato con uno dei quattro ed io, naturalmente, ero Allen Faulkner, perché era il capo (e io di solito faccio il capo). Quando da butel dirigevo il periodico Il grande Rodeo (tiratura una copia, lettori quattro, poi sei, poi sette) mi firmavo Allen Faulkner quando scrivevo articoli “da capo”, cioè se dovevo inveire o scrollare. Guarda caso, in Thomas c’è un cavaliere di nome Allen ed è l’unico che sa bene come si combatte.
Ho scelto questo nome per il mio finto recensore anche perché mi ricordava una cosa carina che avevo letto. Quando chiesero a Faulkner (William) di scrivere una recensione per non ricordo quale libro, disse che non era capace. Così, nel dubbio se la sapevo fare o no, avevo una ragione in più per giocare sui nomi.
Sul sogno. Il sogno è autentico, direi in tutti i particolari. E’ veramente l’unico caso di un sogno che io abbia ricordato dall’inizio alla fine e che scrissi tutto d’un fiato appena svegliato (era proprio pomeriggio e i miei amici erano… in gita a Firenze). Avevo la confusa impressione che quel sogno avesse un senso. E ce l’aveva, eccome! E’ da quel momento che ho cominciato a scrivere Reuben. Credo che un buon analista ne caverebbe fuori molto, ma io di psicanalisi mi sono un po’ stufato e dopo tanto sudore su Jung, adesso non mi ricordo quasi più niente (fra parentesi, mi piacerebbe leggere il clone su Haziel).
Sul narratore. Ancora adesso, che sono un po’ più navigato, sostanzialmente me ne frego delle teorie narratologiche. Figurarsi allora, quando non sapevo neanche che esistessero (eh, io non ho fatto il don Mazza. Ho fatto lo scientifico e male). L’interrelazione fra narratore e Reuben mi rimase misteriosa fino quasi alla fine del libro, quando capii, con sommo stupore, che erano o potevano essere la stessa persona. Oggi questa a me sembra la cosa più ovvia. L’andarsene di Reuben è l’andarsene di un tempo (ma allora scompare anche il protagonista! Resta solo il tempo! Anzi se ne va anche il tempo, il tempo perduto? No, Proust non lo avevo ancora letto. Ma Joyce sì, un po’). Un mio giovane studente, non un genio, ha letto Reuben e l’unica cosa che mi ha detto è stata: mi è piaciuto, perché anch’io vivo quelle cose lì. Non so dirle, ma sono più o meno così. E poi, profe, quello che scrive e Reuben, sono la stessa persona, vero? Questo studente ha capito qualcosa. Questo gioco narratore/Reuben mi sembra un aspetto interessante e originale del romanzo (vabbé, sempre il topos del doppio, però un po’ diverso). Il fatto che in Som de l’escalina Reuben non scriva al narratore, come mi hai fatto notare, è prova che il narratore non c’è, o meglio, non c’è più perché si è in qualche modo ricongiunto con il Reuben ritrovato.
Sul tempo. Reuben è di fatto un romanzo senza tempo, nel senso che non ho mai pensato a una struttura cronologica degli eventi, inoltre l’inesausto lavoro di montaggio ha scombinato una volta per tutte tutti i piani della memoria. Credo si possa dire che il tempo “prima” è il tempo in cui tutto andava bene, il tempo senza domande, il tempo della pura, normale amicizia, dei puri, normali sogni. Questo tempo, nell’opera, è ripensato, ma mai rivissuto (se non, in qualche modo, nell’incontro con Cinzia). Il tempo su cui si macera la sofferenza del narratore è invece il tempo del presente (in quel tempo, diciamo fra i 16 e i 22 anni, soffrii spaventosamente per motivi misteriosi, salvo una pausa mistico/religiosa intorno ai 19 anni). Il tempo del futuro è promesso dallo scoiattolo alla fine del libro (allora non potevo sapere che ci sarebbero voluti altri 13 anni e una specie di ecatombe in mezzo). Som de l’escalina, scritto dopo la fase critica, gioca sul tempo sospeso (sul sito ho messo una pagina manoscritta in cui provavo a strutturare i capitoli di Som in base a diversi aspetti del tempo). In Thomas il tempo avrà una strutturazione rigorosa, diventando importante all’eccesso. Sarà un libro sul tempismo (anche se il lettore verrà edotto sul fatto che esiste un Tempo che assorbe i singoli tempi).
Sullo stucco che cede alla finestra. Grazie Mirco. Che ti sia piaciuto è per me fonte di grande consolazione. E’ il brano che apparentemente c’entra meno con la storia, ma quando l’ho scritto ho saputo che ero nato per scrivere. Quel branetto metteva insieme la scoperta di Joyce, le letture infantili (I ragazzi della via Pal), la pioggia che cadeva (davvero) sul vetro davanti alla mia scrivania, l’idea che gli oggetti cedono e quindi il trauma della manutenzione che si oppone all’eroico esistere (nella mente) del corpo invincibile di Reuben. Per apprezzarlo ci voleva un Lettore.
Sui genitori. E’ vero, non ci sono. In pratica nei miei libri non ce ne sono mai. Solo che nei Manga gli adolescenti ne approfittano per fare sesso di gruppo, nei miei libri gli adolescenti filosofeggiano (è vero) essendo sostanzialmente sessuofobi (vedi il travaglio di June, poveretto). Il fatto è che nella mia casa i genitori c’erano, eccome. Ce n’erano addirittura quattro, visto che ho sempre abitato in una bifamiliare con zii che erano dei secondi padre e madre. Essendo però i miei genitori e zii assolutamente normali (magari un po’ sessuofobi come ovvio per la loro generazione; meno ovvio, ma dato di fatto, che me l’abbiano passata questa fisima) ed essendo la mia vita interiore sostanzialmente indicibile (perché, come glielo dici a qualcuno che stai malissimo ma non sai perché?) eccoli esclusi dal film. Fanno le comparse in June, riscompaiono in Thomas (un monastero). Vero però che nella classifica delle presenza genitoriali vincerà il padre (sotto forma di padre spirituale, modello, come sarà Thomas per Reuben), seguito dalla sorella (in June); vaga la madre, ultimo, assente, il fratello. E’ la classifica ordinata delle carenze di relazione, compensate da sviluppo di sensi di colpa.
Sulla natura dell’amicizia. Reuben è stato scritto nell’età dell’amicizia, quella fase in cui nulla conta più degli amici eppure, si nota, c’è qualcosa che non va. Ebbene, i miei amici appartenevano ad altri mondi. Facevamo insieme enormi quantità di cose (tranne studiare) ma di cosa ci succedeva dentro non parlavamo mai, tranne con Cinzia che andavo a trovare ogni quindici giorni per terapeutiche sedute notturne di tormento. La cosa carina è che, passati trent’anni, i miei amici, quelli con cui ancora mi sento in sintonia, sono sempre loro, come se avessi chiuso l’epoca delle scelte e ne avessi escluso ogni nuova possibilità. Lo ammetto. Sono un solitario.
Sul telefono. Lo odiavo cordialmente. Ancora adesso lo evito accuratamente e ho mantenuto l’abitudine a rimandare le telefonate e a non rispondere agli SMS. Una mia collega una volta si è infuriata terribilmente perché non le avevo risposto. A me sembrava tanto normale… Ecco perché il narratore non richiama Reuben. Rimanda.
Sul 23 aprile. 23 perché è il mio giorno di fidanzamento. Aprile perché in aprile iniziano tutte le storie (Chaucer, La terra desolata…, La ballata di Aengus l’errante). Ciò che è accaduto è che Reuben pensa di andare a Firenze a trovare i suoi amici (si è pentito di non essere andato), ma, riflettendo sul sogno, decide poi di andare da un’altra parte solo per pochi giorni. Sceglie il mare (come ricorderai, io al don Mazza in gita portavo sempre le classi al mare con la scusa dell’Etruria o di Ravenna. Naturalmente ce le portavo in aprile) perché in aprile è bello (eh sì, qualche volta in aprile al mare ci andavo con i miei amici. A fare cosa? A giocare a biglie). Dall’incipit di Som de l’escalina si comprende che invece Reuben va a nord, e questo è un mistero, perché Reuben teme il freddo. Salito sul treno o bus che si voglia e giunto a destinazione, Reuben rimanda il ritorno e, alla fine, non torna più.
Sulla domanda se un testo dovrebbe dire tutto. Secondo me no. Nella nostra conversazione al bar di Ponte Pietra tu dicesti una cosa su cui ho riflettuto a lungo, cioè che il romanzo contemporaneo è autoreferenziale, si completa in se stesso, mentre quello classico si completa fuori di sé. Mi picco di essere uno scrittore classico e condivido quello che la mia editrice ha scritto di June: al lettore spetta rispondere a domande che lo interrogano paradossalmente e implicitamente sulla sua stessa vita. Il libro che avrei sempre voluto scrivere è Qohelet, un libro senza risposte.
Sui nomi. Giocare sui nomi mi è sempre piaciuto (lo si capisce bene in una pagina di June), anche perché dal mio nome sono stato fortemente condizionato (questo aneddoto merita uno spazietto: da piccolo, sul Manuale delle Giovani Marmotte, lessi il significato del nome Roberto, cioè “Portatore di forza. Molto fuoco sotto l’apparenza fredda”. Da allora mi sono sempre impegnato a rendere giustizia al mio nome, fino ad accorgermi, quei 25 anni dopo, leggendo Berne, che avevo messo in atto uno dei più semplici principi del copione esistenziale. Ormai era troppo tardi. Ero diventato freddo ed ero diventato un suscitatore di forza. Mi ripromettevo infine di far ardere il fuoco e appiccai come un piromane nel bosco sbagliato. Da allora mi accontento di fuochi leggeri). Il nome Reuben l’ho scelto, come molti altri, consultando le pagine centrali del dizionario Regazzini italiano inglese. Il sistema lo descrivo in una pagina di La ballata di Aengus l’errante:
I nomi ti si impongono e svelano i loro sottili giochi con un po’ di pazienza, quando hai finito di considerarli nuovi e li allinei con gli altri, conosciuti da sempre o da molto, che si confondono con le facce e le storie di chi li possiede (o meglio di chi ne è posseduto) fino a perdere un’identità che a stento già possedevano.
Solo dopo che hai dimenticato il potere di un nome, mentre passeggi tranquillo lungo il fiume o poti un ramo di magnolia o cucini una trota sulle braci del camino di casa, quello all’improvviso ti aggredisce come un morto da dietro un angolo e ti richiama alla responsabilità di essere un battezzatore di spiriti, alla pesantezza dei nomi, alla storia che ciascuno di essi rifiuta di lasciarsi strappare dalle dita o di dimenticare.
In questo modo, dopo che per anni, o forse decenni, quel nome aveva riposato fra alcuni altri sugli scaffali della mia collezione di anime, una sera mi cadde addosso in un istante, mentre pensavo di dedicare qualche mezz’ora alla ricerca di tutt’altro che lui, che solo per disordine o ventura si trovava accanto.
Mi cadde addosso quel nome e me ne innamorai come se fosse davvero la prima volta che lo incontravo. In realtà stava sepolto, ma da sempre. Questa sua nascita era una rinascita, un venire alla luce dopo un’oscurità serena e paziente.
Con allegria e sfacciatamente egli venne giù e fece due saltelli e si sedette poi imbronciato su un mucchio di libri a guardare il mio stupore fino a riderne.
Così diverso dai nomi che avevo finora riconosciuto, non poteva che essere lui, Aengus, la cui storia cominciava a salirmi alle labbra. Egli si accomodò, e la notte stese la sua coperta di stelle e vi si sdraiò come una basilissa, mentre le nuvole seguivano il vento porgendo l’orecchio per qualche istante prima di essere troppo lontane.
Così di notte e in primavera, quando cominciano tutte le storie, anche questa si srotolò davanti a me.
Le ragioni per cui il nome Reuben mi piaceva sono dette nel libro. Non c’era alcuna attinenza in origine con il personaggio biblico, anche se negli anni successivi mi sarei occupato intensamente di questioni ebraiche e avrei scoperto molte cose. Siccome sono convinto, come scrivevo all’inizio, che c’è dello Spirito in tutto questo, credo che non sia un caso che la tribù di Reuben vivesse oltre il Mar Morto, quindi isolata dalle altre. Credo non sia un caso che ricordi il rubino (Sartre su Baudelaire: era un brillante fragile che si spezzò al primo scontro con la vita). Credo non sia un caso che sia inserito nella genealogia biblica (a proposito, non mi sarebbe piaciuto scrivere solo Qohelet, ma anche quasi tutta la Bibbia. E per sovrappiù l’Iliade). Credo quindi che non sia un caso che nei testamenti dei XII patriarchi, vi siano quelle misteriose parole sul sonno e sullo spirito.
Fra i nomi che mi sono stati donati uno dei più curiosi è Gorboduc, il soldato imbelle di Alianti.
Sull’epigrafe. L’epigrafe è la parte più tardiva, scelta per la pubblicazione in volume. Confesso che c’è un vezzo erudito (nelle epigrafi, però, c’è quasi sempre). Ma il testo mi intrigava per il suo sapore esoterico e per i riferimenti a cose che, tutte, ci sono nel libro. Il sonno crea le storie, come è accaduto con il sogno di Reuben, ma non è il sonno in sé, quanto lo spirito del sonno. La natura, il mare, la notte hanno proprio, in Reuben, un senso estatico, sorte di rifugio delle speranze irrealizzabili nella città (infatti Reuben non va a Firenze, ma al mare, e non in una cittadina di mare). Infine la morte, presente solo in immagine.
Sulle genealogie. Che Reuben sia in primo luogo figlio è evidenziato dalla sua età e, nell’incipit di Som, dal fatto di lasciare in primo luogo, come Abramo che è figlio orfano e non ancora padre, la casa del padre. Inoltre Reuben non ha responsabilità, quindi appartiene alla genia dei figli, non dei genitori.
La tua analisi delle genealogie bibliche è ingegnosa e corretta. Ad alcune cose avevo pensato, ad altre no. La scala, per esempio è precisamente la stessa nella Genesi, in Reuben e in Som.
L’Isacco conclusivo è la promessa di un figlio che gli angeli fanno a Sara. Isacco significa ridere. C’è una doppia apertura: al riso, alla paternità. In qualche modo il narratore, per uscire dalla sua impasse di regredito deve muoversi, diventare grande, lasciare l’infanzia di Reuben e assumersi responsabilità. Lì, spera, troverà anche la gioia.
Sulle fiabe. Questo è un registro che non ho mai ipotizzato. Mi sembra un’analisi brillante e credibile, ma posso garantire che non è mai stata presente al mio atto cosciente. Poiché però le fiabe lavorano a livello sotterraneo, prometto che ci penserò.
Su Som de l’escalina. Ha una struttura a episodi. Solo nella seconda parte si evince un indirizzo, visto che Reuben sale al convento e ci resta. Molti capitoli son fatti a doppio strato: l’arrivo o la presenza di Reuben in un luogo; una storia che viene narrata (è rimasta traccia di questo procedimento in un capitolo di June, quello della storia della cicala e la formica) (questa sezione è stata tolta dall'Autore nell'ultima versione di June ndr). Fra queste quella che mi piace di più è il racconto di Gesù e gli apostoli. Mi piace anche l’idea che un contadino racconti una storia che gli è stata raccontata e che riconosca nella bellezza della storia una ragione per non avere paura di Reuben. Mi piace anche lo sfondo atmosferico. Si sente l’umidità dell’aria.
Su Dom Willembordo. Avrà ruolo in Thomas. Anche lui è ispirato a uno scrittore, come Thomas.
Su Marcel-Lucien. Marcel è Proust, bravo. Per un certo periodo ho letto Proust di notte e ho scoperto che dopo una mezz’ora, passata la fase di ambientamento, oppiacea, al lento dipanarsi della sua prosa, l’esperienza diventava mistica. Sprofondavo nella Recherche e stavo benissimo. L’unico altro libro che mi dà le stesse sensazioni è il Talmud. Lucien è il nome d’arte di Aimé Duval, cantautore francese, prete, alcolista, che ha scritto il più bel libro che ho letto nel 1985, cioè Il bambino che giocava con la luna.
Su Mirco Cittadini. Il lettore che tutti vorrebbero avere. Grazie. Agogno un appuntamento. Quel circolo ellenico della nostra giovinezza non sarebbe male riprenderlo…