Recensione di Elisa Zoppei

Testo tratto dal sito www.ilcondominionews.it

(...) June, uno dei romanzi dello scrittore veronese Roberto Leopardi, scritto fra il 1992 e il 1993 e incessantemente rivisto, fino all’ultima edizione del 2018. Un libro passato di mano in mano lungo il corso degli anni, dunque, che ha incontrato non pochi consensi e critiche assai favorevoli.

Una delle mie fisse più fondata, trattando dei libri e della loro vita, è che i libri escono dalla macchina della stampa senza gambe ed è quindi necessario aiutarli a farsi conoscere aprendoli, leggendoli, consigliandoli.

(...) Ci sono persone pronte ad assicurare che i libri di Leopardi sono autentici classici moderni, libri che fanno pensare, che cambiano un po’ la vita di chi li legge, che resteranno nel tempo. Io sono fra quelle.

Scritto fra il 1992 e il 1993 e incessantemente revisionato – dalla prima edizione del 2006 all’ultima del 2018 – June è il libro più letto di Roberto Leopardi. L’autore confessa che non è lui a decidere le storie dei suoi personaggi, ma lascia che le parole e gli intrecci emergano da un’idea, una frase, un luogo e, man mano che scrive, esse prendano forma e vita. Non gli resta che raccontarle senza sapere mai come andranno a finire perché lui si evolve con loro. Trovo che in questo romanzo i personaggi siano perfettamente calzanti al loro ruolo, sia dal punto di vista fisico e psico-morale pur nelle varie intemperanze evolutive che li attraversano.

A partire dai ruggenti venti, la vicenda si muove nella prima metà del ‘900, fra i vicoli malavitosi di Chicago, all’interno di fumosi locali di dubbia reputazione come il Martini’s, il Borns e il Lowside, dove i più si ubriacavano di pessimo whisky (di contrabbando, naturalmente) e ragazze, più povere che voluttuose, si offrivano come merce a buon mercato.

Qui nasceva e si propagava nel mondo il contagio irrefrenabile del grande jazz delle origini. Origini, la cui nascita si contendevano in inconcludenti dispute i musicisti Bianchi e Neri, frequentatori abitudinari di quei locali allora in voga, tutti soggiogati (meglio forse dire assatanati) dalla magia del ritmo vitale che scorreva nel sangue delle vene di favolosi trombettisti, pianisti, cornettisti, i quali, trascinati dall’ispirazione del momento, spesso, non sapendo leggere gli spartiti musicali, forti però di un repertorio atavico nato dai canti degli schiavi nei campi di cotone, si lanciavano in esibizioni di brani musicali con virtuosismi improvvisati, tali da andare oltre lo strumento, capaci di togliere il fiato e rimuovere sensazioni dal profondo, farle sentire a fior di pelle, farle uscire bagnandole di lacrime.

Fra tutti il bianco Bix Beiderbecke (1903-1931), che nel romanzo appare la fonte energetica della vocazione di Earl, fratello maggiore del protagonista June, e suo idolo ispiratore, venato di quel romanticismo tedesco compenetrato da nostalgia e malinconia che ha stregato il mondo intero e lo ha fatto piangere. In quel tempo, a Chicago, in quei posti lì si poteva ascoltare la miglior musica del mondo e Benny Goodman era di casa. Poi nel ’29, quando tutto andò in crisi, il suono del jazz si fece più cauto, più stanco… dalle cantine, dai bidoni delle immondizie salì verso le nuvole e frugò il cielo per scovarvi Dio…

June, è l’io narrante, un tipico ragazzo di quegli anni, affascinato da quel mondo. Vive all’ombra del fratello maggiore, Earl infiammato di jazz fino al midollo, divorato dalla voglia frenetica di suonarlo, interpretarlo, inventarlo, comporlo, ma anche fragile e incapace di controllare i propri impulsi autodistruttivi che lo porteranno dritto in carcere a scontare una lunga pena, lasciando l’adolescente June a sbrigarsela da solo nella giungla di quei tempi. Alle spalle, una famiglia, di stampo tradizionale perbenista, incurante dei bisogni e dei sogni dei figli. Né il padre taciturno che trascorre i pomeriggi a fare aerei in balsa, né la madre bacchettona e isterica si rendono conto dei drammi interiori che minano la salute morale e la stabilità psichica dei loro figli. Anche le due sorelle Rossella e Manuela ne pagano lo scotto: insicure, ed esposte alle lusinghe che bussano incessanti alle loro interne finestre e si piegheranno alla sorte.

Si può capire come la storia di June Mellow si sgrovigli lungo il suo viaggio attraverso la vita, dall’infanzia alla maturità, scappando dalle protettive ma angustianti ali materne, muovendosi passo dopo passo all’ombra del fratello maggiore Earl, suo eroe mitico, sprofondando di ammirazione silenziosa per lui, idolatrandolo, volendo essere come lui, diventando lui.

Incontrerà via via maestri che lo inoltreranno alla misteriosa e per lui incomprensibile magia del jazz e donne generose che gli sveleranno i piaceri del sesso, condannandolo però a crisi di coscienza in una impari lotta con i peccati carnali. Farà delle scelte spinto dalle circostanze, non sentendosi mai al posto giusto, come in prestito alla vita, fino a quando troverà qualcosa che…

A voi lettori la sorpresa di un finale inaspettato, con il piacere di procedere agilmente tra le pagine, gustandovi la scrittura ritmata sulla sonorità delle parole di questo romanzo Jazz, come appropriatamente qualcuno ha chiamato, cioè un romanzo scritto come uno spartito musicale al ritmo del jazz. A suonare a turno sono i personaggi comprimari di June, in una narrazione a più voci, quasi un ri-raccontare la stessa storia attraverso una molteplicità di punti di vista. Mossa sapiente di chi sa scrivere con arte.