Riportiamo il primo capitolo di June, tratto dall'edizione del 2006 (pp. 7-19)


Earl guadagnava quindici dollari la settimana, e non era poco per un ragazzo di quindici anni. Non era poco neppure per un adulto, allora.

Il lavoro iniziava verso le sette di sera, un po’ prima d’inverno, parecchio dopo in piena estate, e poteva durare fino alle due, alle tre o all’alba o finire alle undici o mezzanotte, a seconda di chi frequentava il locale quella sera. In pratica, quando se ne andavano quelli che spendevano molto Burns, il padrone, cominciava a pulire il bancone, rovesciava qualche sedia sui tavoli, versava da bere l’ultimo bicchiere e, insomma, faceva capire a chi restava che era ora di andarsene.

Il martedì il locale chiudeva, ma Earl non era tipo da starsene tranquillo a casa. Tagliava la corda e andava una settimana al Lowside, l’altra al Martini’s per ascoltare la musica. A mia madre diceva che era un aggiornamento professionale.

Beh, era vero. Appunto, da Burns Earl suonava il pianoforte ricavando un vantaggio economico dalle lezioni che mia madre ci obbligava a prendere.

Mia madre.

Mia madre non si imponeva mai. Aveva un modo di dirti le cose che potevi dirle di no o fingere di ignorarla, ma poi ti sentivi tutto scombussolato. Il fatto è che non ci rinfacciava mai apertamente i sacrifici che faceva per noi. Era questo che ci faceva a pezzi. Non c’è niente come uno che tace e tu sai di dovergli qualcosa. Se avesse brontolato sarebbe stato più facile darle contro, ma tacendo esercitava su di noi un dominio ferreo, cui solo Earl, in qualche modo, si sottraeva. Beh, con il tempo avrebbe smesso di tacere, e allora ce ne saremmo andati tutti, come Earl.

Earl.

Lui era il ribelle della famiglia. Il secondogenito. Earl a otto anni fumava. A undici fu sorpreso a bere acquavite dentro un bidone, a due mesi dal proibizionismo. A dodici anni era già scappato di casa tre volte, l’ultima delle quali ci volle una notte per trovarlo sulla spiaggia che cercava punte di freccia. A quattordici era campione di biliardo dell’isolato e andava a sfidare i campioni degli altri isolati nei bar del quartiere. A quindici anni suonava da Burns e io andavo a spiarlo.

Io.

Io avevo otto anni e lo amavo, il mio idolo, il mio eroe greco dal labbro spaccato e il naso perennemente sanguinante. Earl era un rissoso, praticamente come tutti i ragazzi del South Side, venuti su in un posto che, dall’immigrazione dei negri e dagli scontri del ’19, era diventata una grossa polveriera.

Per fortuna c’era la musica a fare un po’ di ordine. Quando si andava ai rent-parties non si guardava tanto al colore della pelle, almeno in genere, ma a quanto uno era “giusto”, giusto per quelle cose lì, si intende.

Earl cominciò a ridurre le zuffe dopo che mia madre gli ebbe fatto notare che le dita gli servivano per suonare e che un dito rotto può restare storto per sempre. La cosa lo terrorizzò, anche perché era campione di biliardo, e le dita gli servivano anche per quella cosa lì. Fu da allora che divenne più accorto e, in cambio del suo buonsenso, ottenne di suonare da Burns.

Tutto sommato Burns non era un locale disprezzabile. La clientela era bianca e mia madre conosceva un cugino o qualcosa del genere del padrone. Risse non ce n’erano mai state e la polizia non irrompeva mai, avendo ben altro da fare in zona. Non che fosse proprio un locale per un ragazzo di quindici anni, ma era certo meglio di tanti posti dove Earl avrebbe finito per cacciarsi.

E quindici dollari la settimana non erano pochi per un ragazzo di quindici anni.

Neppure per un adulto lo erano, allora.


Un pianoforte a casa mia non c’era. C’era quello della vicina, e Earl lo suonava da quando aveva quattro anni.

La vicina, la signorina Martha, insegnava musica e aveva le dita lunghe e morbide che cadevano sui tasti piano piano, quasi temendo di fare loro del male. Mio fratello pestava senza misericordia e usava il pedale del forte con la stessa delicatezza con cui mia madre usava l’accetta sul collo dei polli. Il pedale del piano gli era del tutto sconosciuto, per questo non si poteva dire, neppure all’inizio della sua carriera, che suonasse con i piedi. Usava solo il destro, e vi garantisco che era abbastanza.

La signorina Martha aveva degli occhiali montati in corno, una specie di serranda coi doppi vetri, e andava dalla parrucchiera ogni sabato per riaggiustarsi la permanente e ridipingersi i capelli di arancione, quella specie di rivoltante castano che le bionde usano quando cominciano a incanutire. Portava gonne molto strette sotto il ginocchio, e i fianchi sembravano dovere strabordare ogni volta che si sedeva. I bottoni, dovunque fossero, su qualunque capo di vestiario, erano potenziali pallottole che si comprimevano su catapulte di stoffa. Eppure la signorina Martha non era grassa. O almeno non lo era troppo, solo che vestiva troppo attillata. Ecco, proprio troppo attillata. Era tutta attillata, anche a parte i vestiti. Parlava attillata, con una voce che non scendeva sotto le narici, e qualche volta pareva che parlasse con le orecchie, tanto le parole restavano nella parte alta della faccia. Suonava attillata, raccolta sullo sgabello come un ghiacciolo intorno allo stecco. Suonava cose dolci, molto romantiche, che accompagnava con dei movimenti delle spalle avanti e indietro ciondolando la testa di qua e di là. Le sue lunghe dita sembravano minacciare i tasti con la promessa di picchiarli forte, senza ragione, ma si trattenevano, come ci si trattiene dallo schiaffeggiare un bambino.

Era una signorina molto buona e molto comprensiva. Aveva perso il fidanzato nella guerra con la Spagna e ne teneva una foto sul pianoforte. Credo che pensasse a lui quando suonava quelle cose così soffici e monotone e dondolava avanti e indietro. Coccolava quel giovane corpo senza vita vestito in cachi con quel cappellone a tese larghe e quei pantaloni larghi alle cosce e stretti in fondo, con le fasce.

Mi piaceva molto, la signorina Martha, e faceva degli ottimi tè alle quattro del pomeriggio. Spesso invitava mia madre, ed era un po’ complice sua, un po’ complice nostra. A Natale veniva a mangiare da noi e ci portava dei buoni dolci che comprava in una pasticceria del Loop che lei sola conosceva.

Earl andava a suonare il pianoforte tutti i pomeriggi dopo la partita di football o di baseball in strada e, quando era più piccolo, era la stessa signorina Martha che gli tagliava le unghie a filo dell’attaccatura e, talvolta, lo buttava in vasca.

Per via di quel pianoforte mio fratello subiva da lei ogni cosa, tranne le lezioni di tecnica. Non ci fu mai verso di fargli mettere le cinque dita accostate sul do re mi fa sol, schiacciare tutti i cinque tasti e poi ribatterne uno alla volta per quattro battute. La prima volta che ci provò giunse fino all’anulare, che restò ribaldamente invischiato sul fa di quarta ottava e da lì non si volle disormeggiare. Quella prima volta fu anche l’ultima, e l’anulare rimase il dito critico di mio fratello. Diceva che il più delle volte gli dava impiccio, un po’ come il pedale del piano.

Al Lowside suonava Jim Fellmann e al Martini’s Johnny Watters.

Jim aveva una fantastica mano sinistra ed Earl andava al Lowside solo per quella mano.

Jim spaccava le corde ritorte della parte bassa della tastiera con delle decime spaventose (almeno a me davano un’impressione apocalittica) e credo che suonasse qualcosa che chiamavano boogy woogy.

Quella mano gigantesca saltava come un rospo prendendo distanze fantastiche fra il mignolo e il pollice. Di solito le decime le suonava in accordo, ma quando agitava la mano come uno che fa segno “così così”, solo molto più in fretta, non sentivi più la melodia, che diventava una specie di canto lontano di mietitori sepolto dal clangore di macchine dell’industria conserviera, e ti restava per un pezzo nelle orecchie quel martellante, allegro e ossessionante giro melodico che scendeva fino al tasto bianco più profondo e saliva a mezza tastiera fino ad incrociarsi con la mano destra e il canto dei mietitori.

Credevo che il pianoforte della signorina Martha non possedesse quei tasti così bassi, questo finché mio fratello decise di possedere anche lui una fantastica mano sinistra: da allora quei tasti si sentirono di là della strada, oltre il vicolo numero tre.

Jim Fellmann era un negro robusto, già vecchio, con gli occhi bianchi e rossi dei negri e le palme delle mani bianche come i tasti bianchi del pianoforte.

Mi era simpatico, Jim, anche perché era amico di mio fratello.

Il Lowside era un locale peggiore di Burns. Burns curava l’arredamento e la clientela, bianchi entrambi. Talvolta non distinguevi la gente dai tavolini, quando indossavano quelle giacche candide su pantaloni candidi con un ascot malva e scarpe panna. Quando suonava da Burns mio fratello usava soprattutto i tasti bianchi e, insomma, tutto pareva pulito e a posto, anche se in fondo era un locale pubblico e mia madre non era contenta che noi ci andassimo, così il più delle volte non glielo dicevo.

Naturalmente andavo da Burns solo al pomeriggio della domenica, quando c’era musica e quindi c’era anche mio fratello. Burns di sera non l’ho mai visto perché quando raggiunsi l’età per avere il permesso di uscire la sera, Earl non suonava più lì.

Al Lowside la clientela era nera, o almeno marroncina, tan, come si diceva, o almeno abbastanza sporca da non far notare la differenza. Al Lowside si andava per giocare a biliardo e bere whisky di contrabbando. Sui tavoli sporchi giravano pacchi di tabacco, fiaschette, mazzi di carte, giornali popolari, banconote mollicce e puzzolenti, e si sputava negli angoli sulla segatura, ma naturalmente qualcuno sputava anche in mezzo al locale e, quando era ubriaco, in mezzo al locale ci vomitava, anche, o ci si stendeva.

Il Lowside mi piaceva perché la gente era simpatica e non badava granché a che faccia avevi. Si passava il tabacco e la fiaschetta senza complimenti e non c’era gente con tanti soldi. Il pianoforte era sgangherato e nero e Jim lo accordava tirando le corde con la chiave inglese. Suonava un mucchio di tasti neri, e quelli bianchi non avevano più il colore naturale dell’avorio ed erano diventati semplicemente sudici. Visti da vicino sembravano portare le impronte digitali di Jim, per quello strano modo che ha l’avorio di frantumarsi in piccoli frammenti che restano attaccati come tessere di un mosaico impregnate di sporcizia come un tatuaggio.

Mio fratello era bianco come il latte, un bel bianco naturale irlandese, e faceva una certa impressione quelle volte che sostituiva Jim quando il vecchio aveva buttato giù troppi sorsi di quel pessimo whisky.

Ero orgoglioso di lui quando suonava e mi piaceva la gente che si complimentava e mi piacevano, dopo le prime paure, quelle negre mammose che mi sbaciucchiavano con i loro labbroni rossi e salivosi schiacciandomi addosso seni duri come palle da football. Molti di quei seni dovevano avere combattuto epiche battaglie nel seminterrato del Lowside, ma, a quell’età, odoravano per me solo di mamma, e il piacere che provavo lo scambiavo, non so quanto innocentemente, con una sorta di affetto filiale.

Sognavo talvolta di vivere con una di loro, di proteggerla da qualche delinquente, da qualcuno dei tanti omacci volgari che frequentavano il locale e le trattavano con tanta confidenza. Quelle gli ridevano dietro o lo mandavano al diavolo o lo abbracciavano e gli si sedevano sulle ginocchia con la stessa facilità, e tutto sembrava così allegro e scanzonato che credevo, quando stavo seduto in un angolino, di assistere a delle commedie, come se tutti interpretassero una parte solo per il mio divertimento e svanissero nei camerini quando io lasciavo il locale prima che facesse troppo buio.

Andavo al Lowside e non da Burns perché quello non chiudeva mai. Potevi andare al mattino per comprare un litro di latte come al pomeriggio a parlare col padrone o a giocare a biliardo, alla sera o di notte per gli scopi più diversi.

Rimasi un frequentatore del Lowside per molti anni, finché, da adulto, cambiai città. Rimase per me un luogo incantato, dove tutti i più vecchi mi conoscevano da quando ero bambino e mi trattavano con affetto e amicizia. Dalle ragazze del Lowside imparai un mucchio di cose, non solo cose che chiunque può imparare da qualunque ragazza, ma il loro bel modo di intendere la vita, la loro gentilezza, la disponibilità ad ascoltarti, sobrio o sbronzo che fossi. Parlai spessissimo di mio fratello con loro, quando le cose erano ormai andate a rotoli e io avevo sedici anni o giù di lì e non sapevo che pesci pigliare. Mi accompagnò una di loro, la prima volta, quando andai a trovarlo in prigione, e Jim, che si era preso a cuore mio fratello come fosse suo figlio, suonava cose allegre quando piangevo e si dimenticava delle sue decime quando mi attaccavo alla fiaschetta del pessimo whisky dei poveri. Suonava il nostro Singin’ the Blues e veniva poi a sedersi vicino a me e beveva con me senza dire niente.

Al Lowside, naturalmente, erano frequenti le risse, soprattutto di sera quando io non c’ero, così venivo a saperlo nei giorni successivi quando vedevo qualche sedia più sgangherata del solito, qualche labbro spaccato, e sentivo di qualcuno che era dentro per qualche giorno. Naturalmente ci ridevano sopra.

Al Lowside la musica era un’altra cosa che da Burns. Da Burns c’era un palchetto, sopra il palchetto un pianoforte bianco, accanto al pianoforte una panchetta coperta di pelle nera con due manopole laterali per regolarne l’altezza e sopra la panchetta c’era mio fratello che soffriva a trattenere la mano sinistra. La gente andava per bere e parlare e passare il tempo, e ascoltava distrattamente la musica che doveva essere debole e discreta. Non era un locale di alto livello, ma era ordinato e pulito. Se non c’era musica, la gente andava lo stesso, ma meno volentieri, quindi Burns pagava mio fratello perché i musicisti bianchi non erano molti da quelle parti e lui negri non ne voleva. La signorina Martha aveva garantito per Earl e il contratto, dopo una prova sommaria, fu stabilito con una stretta di mano.

Burns non capiva un accidente di musica, si aggirava per i tavolini e chiedeva come vi sembrava il pianista. Se voi dicevate che andava bene, lui era contento.

Al Lowside il pianoforte era nero ed era appoggiato a un muro scrostato e sporco, e appoggiata sopra il pianoforte c’era la chiave inglese e vicino alla chiave inglese un cerchio appiccicaticcio che corrispondeva con il punto in cui Jim appoggiava il bicchiere. Jim suonava in mezzo a un frastuono impossibile e riusciva a farsi sentire. Talvolta accompagnava una delle ragazze, una negrona imponente che cantava come una dea dentro un vestito rosso pieno di lustrini. Allora si faceva silenzio e la gente lasciava le stecche, faceva cenno di fare silenzio, posava le stecche, posava i bicchieri e ascoltava. Ma se la canzone era conosciuta, cantavano tutti e Jim pestava sui tasti e sparava le sue decime e ci faceva impazzire, saltare sulle sedie e sui tavoli.

Al Lowside poteva finire l’alcol perché la polizia aveva beccato il contrabbandiere di turno o poteva mancare il tabacco o potevano lacerarsi i panni dei due tavoli da biliardo, ma la musica era tutto e finché c’erano Jim e il pianoforte al Lowside c’era pieno di gente.

Jim non beccava un centesimo.

Credo ci volessero due o tre mani della signorina Martha per farne una delle sue. Aveva davvero una grande mano sinistra.

Quello che suonava era jazz. Non era musica, per la signorina Martha. Era jazz, e a me stava bene così.

Al Martini’s suonava Johnny Watters. Aveva una fantastica mano destra.

Al Martini’s andavano i bianchi e costava caro. Anche Johnny faceva jazz, ma era diverso. Un jazz da bianchi, più rispettabile. Un jazz che sarebbe stato buono per Burns e forse anche per la signorina Martha.

Dopo la metà degli anni ’30 Martini’s, cambiato nome, avrebbe aperto una grande sala da ballo e le sedie dell’orchestra sarebbero state occupate dagli uomini di Eddie Condon, di Count Basie, di Duke Ellington. I negri erano di moda, negli anni ’30, ma negli anni ’20, in certi locali, le cose andavano diversamente. Al Cotton Club la clientela era bianca e i musicisti neri, da Martini’s la clientela era bianca e anche i musicisti. Johnny suonava il pianoforte in un gruppo di una decina di elementi.

Andai una volta al Martini’s con mio fratello evadendo dalla finestra. Il portiere non voleva farmi entrare perché ero troppo piccolo, e mio fratello dovette allungargli due dollari per convincerlo. I camerieri ci guardavano con aria strana, ma mio fratello faceva finta di niente. Ordinò due succhi di frutta, allungò un’altra mancia, questa volta al cameriere, e potei ascoltare Johnny Watters e la sua band.

Johnny sorrideva sempre, mentre suonava, e gettava occhiate qua e là ai suoi ragazzi. Ogni tanto alzava una mano dalla tastiera e segnava il tempo o chiamava gli interventi dei solisti, e non ti accorgevi che stava suonando con una mano sola. Il pianoforte, la batteria, il banjo e il contrabbasso suonavano sempre e suonavano insieme, perfettamente d’accordo, poi, a un cenno di Johnny, la tromba o il sax tenore o i clarinetti o il trombone o tutti insieme o a due a due cominciavano i loro pezzi e si baloccavano la melodia come quando le bambine giocano a passarsi la palla. Talvolta due strumenti suonavano contro altri due, contrappuntando, e alla fine dei pezzi tutti gli strumenti insieme chiudevano con quattro successivi accordi e il pianoforte o la batteria ci ricamavano sopra finché Johnny piegava la testa da un lato, poi la drizzava rapidamente e tutto era finito. La gente applaudiva educatamente. Si vedeva che era contenta. La gente andava al Martini’s per la musica più che per bere. Ci andava anche per incontrare la gente giusta.

Il pianoforte di Johnny Watters, tranne che era a coda ed era di un bianco laccato che sembrava ricoperto di bucce di denti di negro, era uguale a quello della signorina Martha, cioè non aveva i tasti bassi. Cioè, li aveva ma non si sentivano. Johnny, insomma, non li suonava. Cioè, li suonava, ma piano. Tutti insieme quelli dell’orchestra facevano meno fracasso di quanto ne faceva Jim quando si metteva d’impegno.

Mi chiesi per qualche minuto cosa ci stava a fare tutta quella gente sul palchetto se suonava così piano, e ci volle l’esperienza di mio fratello per farmi notare l’esistenza di qualcosa che non avevo fino ad allora conosciuto, cioè l’armonia, l’orchestra. Dopo un po’ entrai nella mentalità e mi gustai la serata.

Rispetto a Jim, Johnny era tutta un’altra pasta. Prima di tutto, non lo conoscemmo mai. Mio fratello lo ammirava, forse più ancora di quanto ammirava Jim. Ammirava la sua capacità di suonare in apparente deconcentrazione, attento a tutto ciò che accadeva agli altri strumenti, sollevando di tanto in tanto quella graziosa mano destra che gentilmente dirigeva altri nove strumenti senza perdere il ritmo. Era veramente una grande mano destra.

Non avendolo mai conosciuto personalmente, mio fratello non sapeva molto di lui. Diceva che veniva dalla “classica” (all’epoca non sapevo cosa volesse dire, e pensavo a qualche classe di scuola), che aveva studiato (ciò mi radicava ancor più nell’idea) e che suonava il jazz perché rendeva di più.

Trovavo incredibile che pagassero Johnny per il poco fracasso che faceva. Che pagassero mio fratello non mi sorprendeva, perché lui era mio fratello ed era stato raccomandato dalla signorina Martha, ma che pagassero Johnny e non Jim, che era più simpatico e la gente impazziva quando suonava, questo lo trovavo incredibile. Non ci credevo, ma non osai mettere in dubbio la parola di mio fratello. Forse la “classica” aveva a che fare con la malavita, e allora tutto era più chiaro, o forse le mani destre erano più rare delle sinistre, quindi aveva un senso pagarle.

Il giorno dopo che mio fratello aveva ascoltato Johnny, si dimenticava delle note basse del pianoforte e scendeva a patti con la signorina Martha. Sembrava un bianco rispettabile. Gli passava in fretta, però. Forse perché il nostro era un quartiere povero e mia madre aveva delle conoscenti e noi giocavamo spesso con ragazzi negri, anche se non stava bene, o forse perché Jim era simpatico e dava lezioni a Earl senza fargli pigiare i tasti tutti insieme, o forse perché mio fratello era un ribelle naturale, ma è certo che suonava come un negro. Tranne che stava imparando a fare le decime anche con la destra.

A diciotto anni mio fratello aveva una fantastica mano sinistra nera e una fantastica mano destra bianca che suonava delle decime nere.

Io avevo undici anni e lo amavo.