Altri tempi. Guida alla lettura

di Mirco Cittadini

“Abitanti della terra, cittadini del cielo” questo si legge in una delle epigrafi a incipit della nuova e insolita raccolta di racconti di Roberto Leopardi.

Insolita nel genere, perché il Leopardi (lo scrittore, quello contemporaneo) ci aveva abituati a romanzi, trilogie, testi complessi e “dialoganti” tra loro, dal flusso adolescenziale di Reuben al romanzo summa, generoso atto d’amore dell’Autore verso gli uomini, Dio e i libri scritti dagli uomini e da Dio; insolita nei tempi, perché il Leopardi è scrittore minuzioso, al limite del maniacale, insoddisfatto, esigente, severo con se stesso e verso la parola che deve essere classica e squisita; e terminata la fatica di Thomas, il monaco, sembrava impossibile a noi che lo conoscevamo che potesse produrre in così breve tempo una serie di racconti.

Credo che l’idea dei racconti sia venuta all’Autore per compensare l’horror vacui inevitabile e luttuoso, a seguito dell’ultima fatica; credo che l’idea dei racconti sia venuta per scaramanzia, avendo più volte dichiarato egli stesso, in contesti pubblici e privati, che avrebbe scritto solo cinque romanzi e che poi sarebbe morto. E considerando che con Thomas si era arrivati ormai alla soglia inquietante del quarto romanzo, se scrivere doveva ancora, certo avrebbe dovuto cambiare direzione.

Scrivere racconti per uno abituato a organizzare architetture imponenti non credo sia facile; quando uno scrittore è nel suo elemento, quando crea galassie, come si ritrova nel plasmare borghi o vallate?

Questo pensa l’Autore: “Per me, voglio dire nella mia esperienza concreta, scrivere racconti equivale in un certo senso a prendersi una vacanza o a fare un lavoro meno impegnativo.(…) Mi pare che la differenza fondamentale fra racconto e romanzo stia nella natura frammentaria del racconto che, per dettagliato o lungo che sia, ruota magneticamente intorno a una singola ossessione”

“Abitanti della terra, cittadini del cielo” si legge come epigrafe della raccolta e in questo dualismo tra cielo e terra si svelano le “ossessioni”, le coordinate entro le quali si muovono sicuri, spediti i 12 racconti, autonomi e al tempo stesso complementari tra loro.

Il primo pannello del dittico è dedicato alle ragioni del cielo, e protagonisti sono uomini di Dio, sacerdoti e frati, con l’apparente eccezione de “L’amico del mattino” che vede in scena due vecchi, la loro amicizia, la normalità delle loro vite, la straordinarietà della loro missione, ministri laici di un officio oneroso.

In “Futuro” chi legge avrà modo di cadere nelle raffinate trappole dell’Autore, in una vicenda dove il futuro, lontano, virtuale, è condizione di pienezza per godere un lentissimo presente.

“Altri tempi”: racconto eponimo dell’intera raccolta, è un testo minimalista e cinicamente reale, perché se nei precedenti racconti teofanie si manifestavano gloriosamente, al povero Don Dario (verso il quale l’Autore tradisce un manzoniano affetto) e alla sua burocratica e pragmatica devozione non resterà che il silenzio di una chiesa vuota.

Seguono a tandem, fluidi, impertinenti, “L’inchiesta” e “Corso fidanzati”, dove tornano gli eroi dell’immaginario leopardiano, i sacerdoti versione più moderna e forse scanzonata dei monaci di Thomas; preti “scandalosi”, irriverenti, seducenti per fascino e virulenza retorica. Si parla di crisi, la crisi di una vocazione e la crisi più profonda e “globale” del matrimonio come sacramento e come pratica temporale.

Sullo sfondo, classicamente in ombra, un segreto senza risposta e la morte che ad ogni quesito la risposta trova.

Con “Fratello fuoco” si intravede una nuova forma di religiosità, una spiritualità panica e sinestesia, orizzonte mai esplorato dall’Autore prima, ma forse tacitamente sotterranea all’intero corpus letterario.

Gli abitanti della terra, a cui è dedicata la seconda parte, sono uomini semplici, umili, alle prese con piccole vicende intrecciate all’interno di vicende più grandi (e mi chiedo quanto in realtà questa raccolta sia debitrice alla visione morale e ironica di quei “Promessi sposi” che tanto sembrano illuminare ogni mia rilettura).

Dalla rustica furbizia del Bergantin di “Settimo non rubare” nel nostalgico contesto del si stava meglio quando si stava peggio, alla nostalgia di Martino de “Le meravigliose ragazze di Praga”, chiuso in un futuro asettico e igienizzato dove si combatte l’ultima (vana) battaglia contro le emozioni.

E se i compagni di gioco de “La rovina” rivivranno in piccolo l’abilità strategica dell’Autore alle prese con uno scontro non meno impegnativo dello scontro che dovette gestire Thomas dall’alto della sua torre, l’ufficiale del Conte Hatzfeld in “Già due volte prima” vivrà la sua morte con lo stesso fatalistico distacco/incoscienza che già conoscemmo nella morte del Barbaro.

Nell’”Orso” riecheggia la spiritualità di “Fratello fuoco”, nella ricerca solitaria del protagonista verso il suo ultimo totem; ma è nell’”Allegria” che l’Autore ritorna alle sue antiche costruzioni, chiudendo con un racconto ampio, ambizioso, viscontiano nella location, joyciano nelle intenzioni, dove la Storia, finalmente maiuscola, ritorna con il suo respiro potente a vivificare personaggi che della Storia non sanno ancora di farne tragicamente parte.

E così il discorso finale del Generale, nella sua austera semplicità, nella retorica commossa e commovente di altri tempi, quando gli uomini di altri tempi, grandi o piccoli che fossero, sapevano riconoscere il valore e il significato di un rito (e l’anaforico “Mi si dice” svela e al tempo stesso sublima la frustrazione dell’uomo e la vertigine del riscatto), nell’eroismo naturale e necessario del condottiero deposto e nel sacrificio del Martire, profezia che preannuncerà il martirio più sanguinoso del Novecento, vibra in noi come atto monumentale (e ormai anacronistico) di moralità e agape.

Gli altri tempi sono quelli dove forse l’Autore vorrebbe sostare, dove forse ciascuno di noi vorrebbe riposare lo sguardo; gli altri tempi sono quelli di Dio, degli uomini, dello Spirito e della Storia; gli altri tempi sono quelli dove sembra non accadere nulla, ma se si rimane in ascolto si può trovare il senso della direzione.

Roberto Leopardi è uno scrittore di altri tempi: non ama le mode letterarie, non ama le mode mondane, è figlio devoto di cattive letture, ultimo baluardo della classicità, come certi soldati giapponesi che continuano a combattere la loro guerra, nelle foreste filippine, anche se ormai non c’è più nulla da combattere; rapsodo di equilibri e sonorità, abile ingannatore, colto misantropo profondamente innamorato dell’Uomo.

Dopo il discorso del Generale, il lettore troverà amara speranza nella passeggiata con la moglie tra la neve, di notte, e nel fumo dei camini.

Il cerchio si chiude.

Ciclico si riaprirà, nelle nuove riletture, con la luce di una candela, la vestaglia di una moglie morta e il discorso di un altro vecchio.

Perché i racconti funzionano e ammaliano come singole sonate, i racconti trovano nuova luce e respiro come le note di un’unica poderosa sinfonia.

E il tempo della lettura e della rilettura, il tempo lineare e al tempo stesso ciclico, è il tempo del piacere e della Storia, come ebbe modo di insegnarmi un giovane, poco esperto, promettente professore al ginnasio; è il tempo degli anni e delle stagioni, è il tempo che sorprende e che rincuora, è il tempo che Dio diede ad un popolo errante ed è il tempo che questo testo restituisce caritatevole a noi.

Mirco Cittadini