I brani sotto riportati sono tratti da Roberto Leopardi, Thomas, il monaco, edizioni SdT, Verona, 2009


I monaci 1 (p.15)

Era forse la passività dell’abitudine, forse una solerzia vagamente superba, o semplicemente l’età: i monaci di Zaruby erano puntualissimi.

Possedevano meridiane, clessidre, cronografi a candela e, avendo ormai acquisito l’infallibile intuizione del momento, alla recita delle ore arrivavano puntuali, immancabili, salutandosi, al rito dell’alba, con cenni del capo prima di rompere il silenzio con l’invocazione a Dio: Domine labia mea aperies.

Cantavano bene, con impegno. Qualcuno aveva una bella voce e timidamente se ne pavoneggiava.

La piccola chiesa in pietra bianca e gialla colorata dai giochi di luce delle vetrate di padre Cosma l’Armonioso assorbiva la monotona dolcezza dei melismi e si impregnava di incensi e fumo di candele.

Il falegname di Plavecky Peter, accerchiato dai consigli premurosi e invadenti di Clemens, Tessalo e Cosma, aveva aggiustato le vecchie panche facendone sedili ampi e comodi con inginocchiatoio alto e spigoli arrotondati. Sia nelle celle che in chiesa e nel refettorio, d’inverno si portavano bracieri, d’estate si lasciava correre la brezza dei Carpazi. Mortificazione e sacrificio non erano vocaboli della regola di Zaruby.

Erano disincantati, i monaci di Zaruby. Da ragazzi avevano provato le privazioni metodiche della formazione, i digiuni, il freddo e ora ne parlavano con orgoglio e nostalgia, ma sapevano che era un orgoglio improprio, perché a fare da fanciulli ciò cui si è obbligati non c’è merito; e sapevano che la loro non era nostalgia di un mondo migliore, ma solo dell’infanzia. Avevano appreso che Dio non è più vicino nelle angustie che nell’agio. Sapevano che ad ogni malattia compete l’opportuna cura e che a gente come loro, lontana ormai dai pericoli del concupire, fame fatica e veglia non servivano; quanto piuttosto, ad evitare dispersione e vanità, la lettura, la preghiera, la puntualità, il metodo.

Coltivavano la mitezza, unità di misura del progresso spirituale; perseguivano la realizzazione della propria unicità, dell’immagine inimitabile di Dio che ciascuno portava sigillata nel profondo dell’anima e che solo le acque inquiete della vita secolare impedivano di vedere e compiere.

Zaruby era per ciascuno di loro il fragile, delicato punto di equilibrio su cui si ergeva l’immenso edificio della vita. Zaruby era un miracolo sospeso, un tempo in bilico fra il momento e l’eternità.

Come la vita dell’uomo sulla terra.


Il barbaro 7 (pp. 180-181)

Quella pelle oltre che lurida era diventata secca. Era da un po’ che Egli non ci dormiva bene. Pensieri.

La sua preoccupazione principale erano i cavalli.

Gli uomini sarebbero sopravvissuti alla fame su suo ordine, ma i cavalli no. I cavalli illanguidivano e morivano anche contro i suoi ordini. Si permettevano di morire e si doveva quindi assecondarli. I modesti rilievi fra le paludi salvavano dagli sbandamenti della Morava, ma non consentivano pascolo. Troppo piccoli.

Questa terra quasi disabitata era ancora troppo piccola. Questa gente venuta a piedi da ovest non sapeva quanto spazio serve a un cavallo.

Egli lo sapeva, Egli lo aveva saputo fin da quando era nato.

Talvolta, quando il vento si incanalava da sud est, Egli sedeva all’ingresso della tenda e pensava alle grandi steppe che aveva lasciato. Allora era preso da un desiderio invincibile di salire sul migliore cavallo e cavalcare, cavalcare verso est, cavalcare senza fermarsi fino a morire ubriaco di vino e di vento in mezzo alla sua terra, in mezzo a erba infinita a ogni angolo dell’orizzonte. Sentiva un peso spigoloso da qualche parte in mezzo al corpo e preso da questa malinconie sembrava quasi umano. Il suo pensiero non si elevava a sofisticate filosofie, a inquietudini cosmologiche, a barlumi soprannaturali. Ciononostante pensava.

Pensava ai cavalli.

C’erano molto più che mille cavalli fra i tre insediamenti invernali, uno sulla Morava e due sulla Rudavka.

Oltre all’erba, un cavallo si mangiava quasi quattro moggi di granaglie al giorno. Ci sarebbero voluti quattromila moggi al giorno, e scorte così ingenti era impossibile averle e comunque mantenerle. Ogni trasporto di foraggio era un’impresa: procurandoselo pure con la violenza non c’era modo di farlo giungere intatto fino al campo nel fango di quell’autunno maledetto. Conservarlo, impossibile. Era necessario sfruttare tutto il pascolo, ma le piogge riempivano le paludi e i morbidi canneti della riva si facevano distanti. Il freddo divorava l’erba selvatica via via che la stagione procedeva e non c’erano spazi ampi di qua della Morava. Attraversarla, impossibile. Gli servivano almeno duecento iugeri di pascolo. E non c’erano. Non c’era soluzione che spostare la mandria in luoghi più ampi. Le terre vicine al campo principale erano però terre di alleati. Si poteva chiedere un altro diritto di erbatico, ma non sarebbe bastato per tutta la mandria. Le terre prossime ai campi a nord erano ampie ma infide. Dopo la scorreria su Kuty i signori terrorizzati avevano accettato ambascerie, ma avevano avuto l’abilità di tirare le trattative fino alle piogge, e la difficoltà di muovere l’esercito intero con i fianchi minacciati dalla testardaggine di Almaron comportava dei rischi che Egli non poteva accettare di correre. Il frutto delle politiche untuose di Harim Toghrul, che avrebbe dovuto cadere a ottobre, sarebbe caduto ormai a primavera.

Non c’era speranza di salvezza in quelle argille. La pioggia veniva talvolta giù così fitta da creare una nebbia che rendeva tutto, anche il pensiero, fosco. La carne secca avrebbe nutrito gli uomini e i bambini. Le donne, alcune ce l’avrebbero fatta, altre sarebbero morte. La mandria delle donne si poteva ricostituire. Non ne mancavano a nord. Sotto le tende c’erano donne di tutte le stirpi che invecchiavano in fretta e lamentandosi morivano. Sotto il feltro nero degli yurt generazioni di avi avevano sofferto l’inverno. Gli uomini sopravvivevano. I bambini, le donne, i vecchi: solo i più forti.

Ma i cavalli crollavano.

Egli pensava ai cavalli, a questi maledetti cavalli occidentali disavvezzi all’erba bagnata, alle cortecce dei giovani alberi, a ogni forma erbosa che fosse ruminabile. Di buoni, vecchi cavalli della steppa ne restavano pochi. Bisognava nutrire cavalli che, come signori, volevano biada. Avena.

E in uno spazio così ristretto, anche ammesso che si fosse riusciti a far giungere la biada, l’avena, bisognava rimuovere ogni giorno novemila libbre di sterco. E al fango si mescolavano milletrecento congi di urina che ammorbavano l’aria, minacciavano i rifornimenti d’acqua e rovinavano gli zoccoli.

I cavalli erano un grave problema che andava risolto subito, prima che gli eventi costringessero a una mossa disperata.

Egli non riusciva a pensare ad altro che ai cavalli e capiva che li doveva portare lassù, dove non voleva andare.


La battaglia 2 (pp.316-318)

L’avanguardia mongola si incuneò nella stretta di Koncival nel tardo mattino.

Cavalieri erano stati avvistati sui fianchi della valletta a chiudere una nuvola lunga di polvere, e a un contatto violento miravano i due tumen di cavalleria leggera.

I cavalieri di Alessio, lo scudiero di Almaron che guidava la gente di Podhraie, videro i mongoli puntarli dritti, archi alla mano. La coda dei fuggitivi sfilava poco distante deformandosi sulla leggera gobba della collina che precedeva l’ingresso sud della valle di Bukova. Si doveva tenere la posizione.

I mongoli erano già lì, prima di quanto si potesse prevedere. La gente già aveva iniziato a infilarsi nella valle a tarda notte, complice la luna piena, e la deportazione delle donne e dei bambini era quasi completa, ma l’esercito andava ancora raccogliendosi a Mikulas, coperto dal posto fortificato di Hola Hora.

Il drappello di mongoli aveva preso lo stretto sentiero a est di Podhraie e si trovava ora in mezzo fra la gente in fuga e l’esercito in formazione. L’ufficiale mongolo vide nell’occasione un buon pretesto per attaccare briga. Per questo muoveva deciso dritto verso Alessio che si trovava in inferiorità numerica.

I cavalieri mongoli sfilarono una manata di frecce dalla faretra e, tenendole fra il palmo della sinistra e l’impugnatura dell’arco, incoccarono le prime e le fecero sibilare infide.

Alessio cercò di ripassare in quel solo istante che c’era fra la partenza delle frecce e il loro arrivo a destinazione quanto gli era stato raccomandato. Al momento non gli veniva in mente niente. I cavalieri compagni girascavano intorno, quasi a schivare i dardi solo facendo ruotare le cavalcature. Alessio, privato misteriosamente della parola, diede l’esempio di cosa si dovesse fare sbracciandosi e mettendosi in posizione dritta, lancia sopra la testa del cavallo, scudo il più addosso possibile. Gli altri lo imitarono quasi disciplinatamente. Alessio era più stupito che spaventato. Si trovava in battaglia e la cosa si risolveva ad assumere posizioni apprese in addestramento. Sentì un toc sullo scudo e la voce che finalmente gli usciva di gola. La pattuglia di cavalieri caricò.

I mongoli strapparono con un colpo di redini e sfumarono evanescenti, un paio implicati nel ritardo di reazione di Alessio che finì per portarli troppo sotto al nemico. Il più sfortunato assaggiò nella schiena una lancia e si separò dal cavallo capriolando all’indietro in un gemito orribile.

La squadra di Alessio esaurì la corsa, e aveva ora due pattugliette di mongoli a destra e a sinistra, rigirati e già intenti a scoccare frecce. Due dei cavalieri provarono la fitta paralizzante dell’acciaio che penetrava negli arti. Rimasero a cavallo solo perché le staffe allungate e la sella rinforzata nel posteriore li legavano quasi un tutt’uno con l’animale. Alessio vide la squadra dividersi, metà istintivamente da una parte, metà dall’altra calamitate dai nemici, e presagì il disastro. Gridò giusto in tempo per esorcizzare lo sfaldamento e urlando trascinò tutto il gruppo, feriti inclusi, verso il fianco destro della valletta, incurante delle frecce che gli volavano dietro. Fece conto sulla buona fortuna, e comunque altra opzione non aveva.

La pattuglia mongola che ora aveva davanti si riaprì sui due lati e allargò quanto bastava per preparare il ritorno sui fianchi. Il tumen alle spalle dei cavalieri, fermo, mirava con calma. Uno dei cavalieri si accasciò sul collo del cavallo con due frecce nella cotta di maglia. Le frecce mongole prendevano un moto di rotazione e le punte erano disegnate in modo tale da infilarsi negli anelli delle cotte e squarciarli. Alessio e gli altri si trovarono con i musi dei cavalli addosso al fianco della valletta, pestati alle spalle dalle frecce copiose. Come un naufrago cerca di afferrare con le sole mani un pesce, così Alessio vedeva sgusciargli fra le mani la preda che si rifrangeva di qua e di là delle sponde della valletta come un ingannevole baluginio dell’acqua.

Urlò ancora di radunarsi intorno a lui e ancora i cavalieri lo fecero, mentre i due gruppi di arcieri sui fianchi si fermavano e incoccavano, i cavalli ansanti e fradici.

Un cavallo crollò trafitto. Alessio ritrovò qualche frammento delle buone pratiche di battaglia e gridò di allargarsi e muovere sul fianco destro, come una rete da pesca. Gli scudi avrebbero protetto in parte dai tiri di freccia da sinistra. L’obiettivo era incantonare almeno una fetta di mongoli e fargli assaggiare il frassino delle lance.

I giovani mongoli provarono a sfuggire all’avvolgimento dando ancora di sprone ai cavallini che, stanchi, ripresero a galoppare. Impediti a prendere un fianco dalla fitta boscaglia che saliva, i giovani mongoli si risolsero a risalire la valle. I cavalli della squadra di Alessio presero velocità con la corsa, inerziati dal loro stesso peso. Il gruppo si allargava a destra e sinistra, incurante delle frecce che volavano come uccelli. I mongoli si trovarono a correre dritti verso la coda della massa di profughi che si inoltrava nel boschetto a nord.

Era una strana gara, con davanti la lunga e sfilacciata teoria di gente a piedi e sui carri, poi un gruppo di mongoli al galoppo, poi cavalieri amici, anch’essi al galoppo, poi ancora mongoli. Vista dall’alto la scena avrebbe avuto del ridicolo. Vista da Alessio, che sentiva un prurito insopportabile alla nuca, proprio dove l’elmo lasciava scoperta la barbuta, la cosa aveva il carattere dell’assurdo. Il suo compito era bloccare eventuali esploratori mongoli prima che arrivassero addosso alla gente, e ora, invece, stava proprio cacciandoglieli addosso. Nel chiaroscuro del primo mattino non poteva vedere che già l’estrema coda degli sfollati del villaggio sbandava cercando rifugio fra gli alberi, né, assordato dal tonfo degli zoccoli, poteva sentire le urla di terrore.

Vide invece stramazzare a terra i tre cavalli mongoli che correvano davanti a lui sulla destra e un altro incespicare e perdere il proprio cavaliere, scivolato goffamente su un fianco. Dopo un istante un altro mongolo andò giù e in un attimo l’inseguimento diventò una corsa a ostacoli a schivare cavalli e cavalieri meravigliosamente rantolanti al suolo. Il paio di mongoli ormai addosso al corteo in fuga inchiodò bruscamente e cercò di tagliare la corda, dritto all’indietro, e fu intercettato dai cavalieri di Podhraie sconcertati e allibiti. Coi loro cavallini, roteando la spada ricurva e urlando gutturali imprecazioni passarono senza far danno e senza subirne fra le linee e, incrociata l’onda montante dell’altro gruppo, la trascinò in fuga.

Alessio vide i suoi cavalieri infilzare con le lance i cinque barbari già di proprio frantumati a terra e, indagando all’intorno le ragioni del magico rovesciamento delle sorti, vide solo frasche in movimento alla sua sinistra. Un arciere sbucò fuori per un solo istante dalla macchia e agitò l’arco, poi riprese a correre lungo il fianco alberoso a tallonare i mongoli in ritirata.

Alessio portò la mano all’elmo in segno di saluto e ringraziamento. In qualche modo ne era venuto fuori. Ma si trovava in fondo alla valletta prima del ricongiungimento con l’esercito che doveva arrivare attraverso Mikulas, impossibilitato, lì, a soddisfare gli ordini e presentarsi in tempo all’appuntamento. Non aveva altra scelta che ripercorrere il tragitto e riprendere la posizione e, per quanto fastidiosa fosse la cosa, si risolse a darne ordine ai suoi, obbligandoli però alla più assoluta prudenza. Due sul fianco destro, protetto il sinistro dai misteriosi arcieri, due alla retroguardia, mossero indietro verso Koncival.