Il testo che segue è il Capitolo III di Annali di Zaruby, Libro IV - Pagina Sacra

“Venite, saliamo al monte del Signore, alla dimora del Dio di Giacobbe: egli ci insegnerà le sue vie. Venite, o attenzioni, ricerche, volontà, riflessioni, affetti, mio intimo tutto: saliamo sul monte, sul luogo in cui il Signore vede e in cui è visto.”

Così inizia il testo di Guigo, con chiaro riferimento all’ascesa di Abramo e Isacco al monte Moria, al luogo della prova estrema, luogo del sacrificio incompiuto e allo stesso tempo compiuto, immagine del Calvario, lizza della sfida dell’uomo a Dio, monte in cui l’uomo vede Dio e lo incontra, monte in cui Dio vede e conosce la gloria dell’uomo.

Anch’io ventisei anni fa salii a un monte, prima solo con i miei piedi, poi con la mia attenzione, la mia volontà, il mio pensiero, e poi con tutto il mio affetto e infine con il mio intimo. Su quel monte vidi e fui visto, da quel monte vidi e capii.

Abramo partì verso un luogo ignoto, il monte che Dio gli avrebbe indicato. Partì di nuovo, lui vecchio, come era partito un tempo da Harran verso un altro luogo ignoto, una pianura oltre un fiume, una terra di uomini e dei stranieri. Partì di nuovo, questa volta con una fiaccola e un coltello e un figlio per mano caricato di legna come un agnello oppresso di troppo peso, scacchi inconsapevoli di una divina scommessa col Satana, vittime come Giobbe di un gioco fra dei, poveri Cristi di una storia spietata e folle.

Io, almeno, al monte ci salii per caso attratto da una strana fascinazione che poi mi legò; Abramo vi salì invece vincolato a un impegno che aveva preso anni prima in uno slancio di fiducia in quel dio straniero giocatore di anime e destini. E camminando Abramo piangeva di nascosto dal figlio e Isacco piangeva di nascosto dal padre, turbati entrambi nell’incertezza di cosa fosse la giustizia, il bene, il proprio ruolo in una storia di salvezza che appena era sbocciata e già minacciava di svanire con una sola morte.

La fede, come l’amore, non ha misura e accumula rabbia e tristezza mentre si nutre di slancio e dedizione. Così, raccontò un giorno Tommaso ai contadini di Plavecky Peter, quando infine un angelo disse ad Abramo di non stendere la mano sul figlio Abramo si irrigidì e disse all’angelo di non tentarlo: che lui aveva avuto ordine da Dio stesso di sacrificare il figlio, il figlio che amava, Isacco, e che la parola di un comune angelo non lo avrebbe distolto dalla sua storia. L’angelo insistette, ma Abramo afferrò più fortemente il coltello, chiuse gli occhi e si accinse a vibrare il colpo. Ci volle il vento leggero di Dio, quella parola che Elia avrebbe molti secoli dopo sentito dalla soglia di una caverna e che ancora soffia a due passi dai cuori umili, per distoglierlo. Dovette scendere Dio stesso a parlare di nuovo ad Abramo e a togliergli il coltello dalle mani e fu in quel momento che Abramo rivendicò per tutta l’umanità di non essere più pezzi degli scacchi, pedine in balia degli dei. Fu allora che quello stesso Abramo che aveva trattato per Sodoma smise di trattare e rivendicò che quando uno dei suoi figli e dei figli di Isacco e dei figli dei suoi figli avesse chiesto perdono a Dio, egli glielo avrebbe dovuto concedere come a un figlio proprio, senza limiti e condizioni in modo che nessuno di noi debba avere paura, nessuno di noi debba credersi definitivamente perduto.

Anche questo contestavamo a Bernardo: la sua idea che solo ai perfetti fosse concessa la speranza del Regno. Noi che perfetti non eravamo giungemmo ben oltre la speranza: comprendemmo il diritto alla salvezza, diritto non di merito ma di figli, non di frutti della gloria ma di frutti della compassione.

Quando la paura del giudizio mi prendeva, quando il peso del peccato mi faceva balenare la minaccia dell’inferno, Cosma mi diceva “Assalonne, Assalonne, figlio mio, Assalonne!”, e lo ripeteva più e più volte e all’inizio io non capivo, e quando gli chiedevo di spiegarmi lui mi diceva ancora “Assalonne, Assalonne, figlio mio, Assalonne!”.

Dovetti arrivarci da solo, a capire, e solo dopo molti anni capii del tutto. Ma voi che avete molta più dimestichezza con il testo sacro di quella che avevo io a quel tempo, avete forse già compreso cosa significa. Quello che non potete sapere è che queste furono anche le parole che Cosma disse a Tommaso la sera della vittoria nella valletta di Bukova quando il nostro priore fu travolto dallo sconforto e dal terrore per la strage che aveva causato. Tommaso aveva vinto per il suo popolo accettando, per amore, di consegnare la sua anima al castigo eterno, ma ora dall’alto del monte di Zaruby vedeva un altro popolo morire e vide e capì che un popolo è ogni altro popolo, un amore ogni altro amore e che la festa era inopportuna e triste. Ma Cosma gli fece capire che la festa era invece necessaria, che la morte che gli cantillava l’anima era solo la sua e che lui, signore e pastore di uomini, non poteva esporla perché lui non aveva valore per sé ma solo per quello che era per gli altri, e la sua vergogna era la vergogna del suo popolo, la sua paura la paura del popolo, la sua disperazione la disperazione del popolo, di quel popolo che per lui, con lui e in lui aveva combattuto e vinto riscattandosi dalla sopraffazione, dalla dipendenza e dall’inferiorità. E Cosma il saggio, Cosma l’ar-monioso gli insegnò che a causa del suo dolore il popolo che aveva vinto sarebbe rientrato vergognoso ai propri villaggi, restituito al destino degli uomini ignoranti e in balia dei confusi ondeggiamenti delle menti dei potenti e ricchi come era lui, Tommaso, come già era accaduto quando il giovane Assalonne ribelle al padre era stato ucciso e Davide lo aveva pianto disperatamente facendo arrossire il volto di tutta la sua gente che in quel giorno aveva salvato la vita a lui e alla sua famiglia.

Quel giorno Cosma parlò francamente a Tommaso come Ioab un tempo disse al suo signore Davide: “Tu ami quelli che ti odiano e odi quelli che ti amano. Infatti oggi tu mostri chiaramente che capi e servi per te non contano nulla; ora io ho capito che se Assalonne fosse vivo e noi quest'oggi fossimo tutti morti, questa sarebbe una cosa giusta ai tuoi occhi. Ora dunque alzati, esci e parla al cuore dei tuoi servi, perché io giuro per il Signore che, se non esci, neppure un uomo resterà con te questa notte.”

Così parlò Ioab a Davide e così parlò Cosma a Tommaso, e Tommaso scese allora nella valle a ricevere da Reuben la notizia della morte del barbaro Egli, a bere con il popolo, a mangiare con loro la carne dei cavalli morti, a benedire i morti e consolare le vedove e gli orfani, a fare festa e trattare la resa dei vinti e onorare le spoglie dei nobili morti.